Ibrahim Nasrallah è un gigante dal punto di vista letterario e dal punto di vista umano. Ha toccato le corde più intime di tutti i presenti il 20 maggio scorso nel reading “se i poeti perdono”. Vogliamo ringraziare tutti per il calore, per la sala gremita dall’inizio alla fine, per aver rafforzato in noi l’idea di andare avanti.

«In quella città bella e lontana, nel cortile ricoperto d’erba, ogni cosa cantava, la gente danzava. Disse: “va dalla puledra, invitala a ballare”. Ero timido. Se i poeti perdono non vince il mondo»

di Maria Rosaria Greco 

 

Ibrahim Nasrallah è uno dei massimi poeti palestinesi, ha vinto numerosi premi letterari, tra i quali il prestigioso “Sultan ’Aways” per la poesia nel 1997. È anche scrittore, oltre che insegnante, giornalista, critico cinematografico, pittore, fotografo.  Il 20 maggio 2016 è nostro ospite nella rassegna FEMMINILE PALESTINESE che curo a Salerno dal 2014. Insieme a lui sono presenti  Simone Sibilio, docente di letteratura araba alla Ca’ Foscari di Veneziache presenta la sua produzione e Omar Suleiman che legge alcuni suoi brani.

Le sue opere si diffondono  in Occidente  dove vengono tradotte in diverse lingue. Ha pubblicato moltissimo: romanzi, libri per bambini, saggi e, ovviamente, molte raccolte di poesie. In italiano sono stati tradotti due suoi romanzi , “Febbre” (Edizioni Lavoro 2001, trad. Capezzone), “Dentro la notte. Diario palestinese” (Ilisso 2004, trad. Dahmash) e una raccolta di poesie “Versi” (Edizioni Q 2009, trad. Dahmash).

Nasce nel 1954, 6 anni dopo la Nakba, nel campo profughi di Wihdat in Giordania, figlio di genitori palestinesi originari di un villaggio vicino Gerusalemme che hanno dovuto lasciare dopo il 1948. La sua infanzia nel campo profughi e l’esperienza della diaspora sono un marchio indelebile nella sua vita e nelle sue opere. Crescendo trova conforto nella conoscenza della cultura internazionale, inizia a leggere e studiare da solo, attraverso la letteratura infatti riesce a volare oltre ogni confine e conosce il mondo. Conosce perfettamente anche i nostri autori: Dante, Manzoni, Pirandello, Montale, Calvino. Tutta la cultura, la letteratura araba e occidentale, rappresentano per lui una rinascita, un grembo materno che lo accoglie, lo nutre e gli dona una nuova vita, una dimensione umana che era stata sottratta, a lui e al suo popolo.

La terza edizione della rassegna “femminile palestinese” ha come sottotitolo “l’occupazione oggi” perché Il focus quest’anno è analizzare qual è la situazione della Palestina oggi, dopo quasi 70 anni di occupazione. Ed è proprio il tema dell’occupazione, del colonialismo, che è presente nelle opere di Nasrallah come un filo conduttore di una nostalgia struggente che solo nella poesia trova riparo. “Se perdono i poeti, non vince il mondo”scrive in una sua poesia. Per lui l’occupazione, ovunque si trovi nel mondo, è la massima espressione di razzismo perché impedisce a un popolo la propria autodeterminazione, appropriandosi della vita delle persone, decidendone il destino. Chi vive sotto occupazione viene privato dei propri sogni, della propria libertà, delle forme più semplici di vita.

È una scrittura altissima quella di Ibrahim Nasrallah che intercetta le emozioni che sgorgano dagli oggetti, dalle storie, dai personaggi per raccontare la pulizia etnica e la diaspora dei palestinesi, ma anche per tutelare i diritti violati delle categorie più esposte. In “Balcony of disgrace” (balcone del disonore) affronta il tema del delitto d’onore, descrivendone la crudeltà e lo scenario di degrado sociale.  Le vittime di questo crimine sono donne innocenti private ​​dei loro diritti. Nasrallah analizza la condizione della donna araba, in particolare nelle classi sociali più povere e, attraverso i personaggi del romanzo, rivisita il significato di concetti dominanti  come onore, virtù, purezza, virilità. È attraverso la letteratura che lo scrittore stimola il cambiamento. Nasrallah scrive questo romanzo dopo aver letto un rapporto delle Nazioni Unite nel 2009 che definiva il numero dei delitti d’onore: ogni anno in tutto il mondo circa 5000 donne sono vittime di questo crimine.

Altro tema molto caro a Nasrallah sono i giovani e in particolare il diritto all’infanzia serena che troppi bambini palestinesi e arabi vedono quotidianamente calpestato. Lui cresciuto in un campo profughi sa molto bene cosa significa essere ragazzi di strada, senza opportunità di crescita culturale, continuamente umiliati e privati di qualsiasi speranza o sogno dall’esercito israeliano.  Nel 2014 partecipa al progetto Climb of Hope (La Scalata della Speranza) promosso dal Pcrf (Fondo di soccorso ai bambini palestinesi – Palestine Children’s Relief Fund), che prevede la scalata del monte Kilimanjaro da parte di Yasmin e Mutassem, due adolescenti palestinesi accompagnati da un gruppo di volontari. I due ragazzi hanno una sola gamba: lei, Yasmin, viene investita a tre anni da un veicolo dell’esercito israeliano di fronte a casa sua, a Ramallah, lui, Mutassem, di Gaza, gli viene amputato l’arto a seguito di un bombardamento israeliano. Il progetto vuole attirare l’attenzione del mondo sui tanti giovani arabi morti o divenuti disabili, per ferite conseguenti a bombardamenti o alla “normale” occupazione militare. Climb of Hope  ha lo scopo di raccogliere fondi per garantire loro cure mediche, per trattarne i traumi psicologici  e per sostenere il loro futuro in vari modi, offrendo una speranza, un’opportunità.  Ibrahim Nasrallah  definisce questi ragazzi senza gambe “i figli della vita, i figli di un popolo che da un secolo combatte per la libertà e questo popolo non sarà mai sconfitto”.

La poesia e la letteratura secondo Ibrahim Nasrallah sono fondamentali per raccontare queste storie a tutto il mondo.  La cultura palestinese è la patria in cui rifugiarsi, il luogo in cui nutrirsi e rigenerarsi, come un vangelo, un corano, un libro sacro che codifica e scandisce i ritmi di una dimensione umana, laica e appassionata, tutt’ora negata a un popolo che invece non perde la speranza, ancorato alla vita e alla propria identità.  Il ruolo dell’intellettuale secondo Nasrallah è quello di guidare, sostenere.  Il poeta non può perdere. “In quella città bella e lontana, nel cortile ricoperto d’erba, ogni cosa cantava, la gente danzava. Disse: “va dalla puledra, invitala a ballare”. Ero timido. Se i poeti perdono non vince il mondo”

di Maria Rosaria Greco

 

Celebriamo questo 25 aprile 2016 con una liberazione simbolica: si chiama Dima al-Wawiha solo 12 anni, oggi è stata rilasciata dopo 75 giorni di detenzione in una prigione israeliana. Il motivo? Quale motivazione potrà mai giustificare questa gravissima violazione dei diritti umani e dell’infanzia? Unica nazione al mondo, secondo l’UNICEF, Israele applica leggi militari secondo le quali può imprigionare minori palestinesi considerati sospetti, anche se hanno 12 anni. Al contrario, ai coloni israeliani in Cisgiordania, viene applicato il diritto civile di Tel Aviv che non consente la detenzione per nessun minore sotto i 14 anni.

Sono felice di essere fuori. La prigione è brutta” ha dichiarato oggi Dima “Durante la mia permanenza in prigione ho sentito la mancanza dei miei compagni di classe, dei miei amici e della famiglia“. Una bambina che avrebbe il diritto di continuare la sua vita di bambina, Dima è la più giovane palestinese mai imprigionata.Arrestata a nord di Hebron il 9 febbraio scorso, mentre tornava da scuola, perché secondo i soldati israeliani nascondeva un coltello nello zaino. Alcuni testimoni raccontano una versione diversa: la ragazza sarebbe stata aggredita e portata via perché stava camminando vicino a un insediamento illegale. Dima viene condannata a quattro mesi e mezzo di carcere e al pagamento di una multa di 8000 shekels, viene ripetutamente sottoposta a duri interrogatori, senza la presenza di un rappresentante legale o un adulto della famiglia.

Sono circa 440 i minori palestinesi nelle carceri israeliane, secondo Defence for Children International – Palestine (DCI). Più di 100 di questi bambini sono tra i 12 e i 15 anni. Il Comitato dei Detenuti Palestinesi e l’Associazione dei Prigionieri Palestinesi, nel rapporto congiunto pubblicato il 17 aprile scorso, dichiarano che sono 7.000 in tutto i prigionieri palestinesi. Dal 1° ottobre 2015, l’esercito israeliano ha arrestato almeno 4800 palestinesi tra cui 1400 bambini, la maggior parte dei quali provenienti da Hebron e Gerusalemme.

Dima oggi è stata liberata anticipatamente anche grazie alla campagna di sensibilizzazione lanciata dal suo avvocato e dalla sua famiglia. Ma rimarrà in lei un segno indelebile, come dovrebbe essere anche per tutti noi. Un’altra infanzia spezzata, una storia di occupazione come tante, una storia Femminile palestinese invisibile agli occhi del mondo. Per questo, 25 aprile per noi è resistenza e liberazione da queste occupazioni. Resistenza è oggi come ieri contro ogni fascismo, in Italia come in Palestina e in tutto il mondo. Finché permetteremo crimini contro l’umanità, violazioni di diritti umani e civili come questi non possiamo sentirci liberi. Ci stringiamo a Dima, alla sua famiglia e al suo popolo che resistono.

Ai primi giornalisti che la volevano intervistare dopo la sua scarcerazione, Dima, che all’inizio era silenziosa, stringendosi alla madre, ha dichiarato “Non ho avuto paura e mi auguro che vengano liberati tutti i prigionieri”. Ha solo 12 anni.

5 anni fa veniva ucciso Vittorio Arrigoni, lo ricordiamo con questa poesia che scrive per lui Ibrahim Nasrallah. Il poeta e scrittore palestinese rifugiato in Giordania, Ibrahim Nasrallah, sarà a Salerno per la rassegna Femminile palestinese il 20 maggio p.v. Restiamo umani Vik

Hanno ucciso tutti
hanno ucciso tutti i minareti
e le dolci campane
uccise le pianure e la spiaggia snella
ucciso l’amore e i destrieri tutti, hanno ucciso il nitrito.
Per te sia buono il mattino.
Non ti hanno conosciuto
non ti hanno conosciuto fiume straripante di gigli
e bellezza di un tralcio sulla porta del giorno
e delicato stillare di corda
e canto di fiumi, di fiori e di amore bello.
Per te sia buono il mattino.
Non hanno conosciuto un paese che vola su ala di farfalla
e il richiamo di una coppia di uccelli all’alba lontana
e una bambina triste
per un sogno semplice e buono
che un caccia ha scaraventato nella terra dell’impossibile.
Per te sia buono il mattino.
No, loro non hanno amato la terra che tu hai amato
intontiti da alberi e ruscelli sopra gli alberi
non hanno visto i fiori sopravvissuti al bombardamento
che gioiosi traboccano e svettano come palme.
Non hanno conosciuto Gerusalemme … la Galilea
nei loro cuori non c’è appuntamento con un’onda e una poesia
con i soli di dio nell’uva di Hebron,
non sono innamorati degli alberi con cui tu hai parlato
non hanno conosciuto la luna che tu hai abbracciato
non hanno custodito la speranza che tu hai accarezzato
la loro notte non si espone al sole
alla nobile gioia.
Che cosa diremo a questo sole che attraversa i nostri nomi?
Che cosa diremo al nostro mare?
Che cosa diremo a noi stessi? Ai nostri piccoli?
Alla nostra lunga dura notte?
Dormi! Tutta questa morte basta
a farli morire tutti di vergogna e di sconcezza.
Dormi bel bambino

di Maria Rosaria Greco

Hebron e le sue donne stanno a cuore alla città di Salerno. Dopo l’incontro con Arwa Abu Haikalorganizzato nell’ambito della rassegna “femminile palestinese” in cui abbiamo parlato della tenacia e fermezza, della somod nella resistenza di intere famiglie palestinesi a Tel Rumeida, cuore storico della città, ora arrivano a Salerno Nawal Slemiah, L. Awawda e M. Sharawna  della cooperativa “Women in Hebron”.

Sabato16 aprile alle 17,30 presso il CSA Jan Assen (Ex Asilo Politico) di Salerno, la cooperativa “Women in Hebron”  incontra le realtà salernitane per spiegare questa esperienza importantissima di impresa sociale, che non rappresenta solo un’occasione di guadagno per le donne coinvolte, ma prima di tutto un’occasione di emancipazione in un contesto socioculturale conservatore. Nawal Slemiah, attuale direttrice, fonda la cooperativa nel 2005 nella città vecchia iniziando a vendere alcuni manufatti nel Suq, in area H2, a pochi passi dalla moschea di Ibrahim. Oggi la cooperativa è cresciuta, da un tavolino lungo la strada è passata a un laboratorio permanente nella città vecchia. Vende prodotti artigianali, borse, portafogli, sciarpe, cuscini, tappeti, tutti fatti a mano da più di 120 donne provenienti dai villaggi nelle colline a Sud di Hebron.

Women in Hebron” è la prima e unica cooperativa di sole donne nell’area ed è stata istituita per fornire alle donne del distretto le risorse per provvedere a se stesse e alle loro famiglie attraverso la produzione e la vendita di oggetti di artigianato palestinesi. “L’obiettivo della nostra cooperativa” ha spiegato Nawal Slemiah “è quello di spingere le donne fuori di casa, offrire loro un lavoro, un’attività, che le renda indipendenti dal salario dei mariti”

Da Hebron,  cuore dell’occupazione israeliana più intransigente in Cisgiordania, ma anche città dal contesto sociale particolarmente maschilista, ci arriva un doppio messaggio di grande vitalità e forza. Una cooperativa di sole donne  afferma, da un lato, l’identità palestinese con la produzione di prodotti artigianali tipici e, dall’altro, una coscienza femminile che affronta e combatte pregiudizi e retaggi culturali che vogliono la donna rinchiusa fra le mura domestiche.

L’incontro salernitano è organizzato dall’associazione  culturale Andrea Proto nell’ambito del tour curato dall’associazione di Amicizia Italo Palestinese che prevede appuntamenti in varie città: Firenze (11 aprile) Viareggio (13 aprile) Napoli (15 aprile).

Il 16 aprile quindi tutti a Salerno, alle 17,30, al CSA Jan Assen (Ex Asilo Politico) per incontrare N. Slemiah, L. Awawda e M. Sharawna di “Women in Hebron”. Modera l’incontro Rosa Schiano, attivista di International Solidarity Movement a Gaza. Introduce Franz Cittadino (asilopolitico.org).

Sarà inoltre possibile acquistare i prodotti manufatti della cooperativa che per l’occasione saranno in esposizione. Ci saranno prodotti palestinesi tradizionali ricamati come borse, abiti, federe e centrini. In più diverse kefiah e tappeti. Non avete ancora una kefiah? Bisogna provvedere

Maggiori info
http://www.ecn.org/asilopolitico/incontro-cooperativa-women-in-hebron/ (sito CSA Jan Assen (Ex Asilo Politico)
www.womeninhebron.com (sito della cooperativa Women in Hebron)

Scene from Peter Kosminsky’s film “The Promise” which re-enacts events at Qurdoba School (Hebron) in 2005 in which Faryel Abu Haikal protects her students. In Salerno in March, the 21 we’ll host her daughter Arwa Abu Haikal

di Maria Rosaria Greco

Arwa è una donna libera e forte, nelle sue vene scorre il sangue degli Abu Haikal di Hebron. È con noi nella rassegna “Femminile palestinese”per raccontarci la sua storia, nel talk “Incontro con Arwa” (organizzato insieme a International Napoli Network, Casa del Conteporaneo, NenaNews Agency) che si tiene il 21 marzo 2016 a Salerno. Il sottotitolo di questa terza edizione è “l’occupazione oggi” e Arwa ci porterà con sé, nella vita di tutti i giorni, fra quelle strade fantasma piene di checkpoint, in quelle scuole e case violate dai militari armati, in quella che forse più di tutte in Palestina è la città emblema dell’occupazione.

Arwa Abu Haikal è di Al Khalil, antica città araba oggi chiamata Hebron da Israele. Lei, sua madre Faryel e la sua famiglia difendono da decenni le loro case e la loro terra dagli attacchi dei coloni del vicino insediamento illegale di TelRumeida. Qui i coloni, protetti dai militari israeliani, sono famosi per essere particolarmente ultranazionalisti, fra i più pericolosi in Cisgiordania. Uno di loro tempo fa ferisce gravemente Arwa con un bastone di legno durante una delle tante aggressioni di massa. Come conseguenza la famiglia Abu Haikal viene condannata al pagamento di una multa di 1.500 shekel. A Hebron se sei arabo non hai diritti e non puoi essere vittima. Il paradosso è che qua gli oppressi devono pagare per l’aggressione subita dall’oppressore.

Le quattro case della famiglia sorgono sulla collinetta di TelRumeida, nel centro storico di Al Khalil, un tempo erano immerse fra gli alberi. Ora sono circondate da insediamenti ebraici da cui spesso partono spedizioni punitive contro la loro proprietà ormai rinchiusa fra recinzioni, filo spinato e avamposti militari. Incendi dolosi e minacce continue da parte dei coloni, pesanti multe inflitte come punizioni arbitrarie, perquisizioni violente da parte dei militari che entrano armati nelle loro case e picchiano uomini e donne, sono la “normale” vita quotidiana.

Qui siamo in area H2, controllata da Israele. Tutto inizia nell’aprile del 1968 quando il rabbino Moshe Levinger, con la scusa di trascorrere la Pasqua ebraica qui,  arriva con un primo nucleo di coloni che si stabiliscono al Park Hotel, nel cuore di Hebron, per non andare mai più via e continuare progressivamente dal suo interno l’occupazione della città. Poi nel febbraio 1994 il colono Baruch Goldstein, un fanatico di origine americana, entra nella moschea e spara sui fedeli in preghiera, uccidendo 29 palestinesi. La strage subita, purtroppo, in questo luogo abbandonato dal diritto non è sufficiente per certificare chi è la vittima e chi è il carnefice. Così paradossalmente vengono puniti i palestinesi che assistono impotenti, con il protocollo di Hebron del 1997, alla divisione (che doveva essere provvisoria) della loro città in H1 e H2. Dopo 22 anni, in H2 vivono circa 600 coloni protetti da 2000/3000 militari israeliani. Prima della divisione, i palestinesi residenti nella Città Vecchia erano 10mila, dopo quella data con il tempo il 96% dei palestinesi ha abbandonato l’area.

È umanamente impossibile vivere in un luogo in cui i coloni, arrivati da varie parti del mondo con convinzioni fanatiche, occupano con la forza la tua casa che appartiene da secoli alla tua famiglia, in cui sei costretto a subire aggressioni e umiliazioni giorno dopo giorno, in cui l’esercito israeliano chiude il tuo negozio arbitrariamente senza sapere fino a quando (come in Shuhada Street, che prima era il cuore economico della città, ora è diventata una strada fantasma). I coloni possono tutto, si muovono in un regime di totale impunità in cui violenza e sopruso sui nativi palestinesi sono il linguaggio quotidiano. Però io penso sia ancora più umanamente impossibile far finta di niente, tacere di fronte a tutto questo dalle nostre comode postazioni occidentali.

La famiglia Abu Haikal resiste, rimane, nonostante tutto. L’esercito israeliano ha provato in tutti i modi a prendersi le loro case, sono state offerte cifre incredibili per convincerli a vendere e andare via. Ma niente ha smosso la loro ferma volontà di restare. Nel 2014, i coloni decidono di usare un’altra arma, chiedono l’approvazione di un’imponente progetto che viene finanziato e iniziano i lavori. Un grande parco archeologico ebraico sorgerà proprio dove c’erano i mandorli e gli ulivi della famiglia Abu Haikal. Si cercano importanti reperti ebraici, solo che nel febbraio 2014, viene scoperta una antica tomba musulmana costruita in pietra direttamente sulla roccia e orientata verso La Mecca. La tomba viene smantellata a dispetto di qualsiasi etica di tipo archeologico o religioso. Nessun diritto neppure per i morti qui a Hebron e nessun rispetto soprattutto per la memoria storica, che anzi va cancellata.

Ho visto da vicino questo scavo archeologico, che è proprio a ridosso della proprietà Abu Haikal tanto da spingere tempo fa Arwa e la madre Faryela contrapporsi per ore ai bulldozer che volevano scavare via i loro alberi, la loro recinzione. Due donne apparentemente indifese, il loro corpo come unica arma, eppure tanto forti da determinare il blocco dello scavatore.

Quando guardai lo scavo archeologico, nel novembre 2014, rimasi colpita tra l’altro da un particolare: la manodopera era palestinese, come accade anche nelle colonie israeliane dove agli arabi toccano i lavori più umili, spesso senza assicurazioni e per quattro soldi. È l’umiliazione ulteriore dell’occupazione.

Ovviamente l’obiettivo chiaro è quello di eliminare, con il tempo, qualsiasi presenza palestinese: Israele vuole la terra senza i nativi dentro. La colonizzazione quindi avanza e l’archeologia è solo uno degli strumenti usati per cambiare di fatto lo status quo. Altri siti archeologici hanno la stessa funzione, accade per esempio a Gerusalemme con la Città di David che incombe sul quartiere arabo di Silwan. L’archeologia è un modo per sottrarre terra in zone strategiche. Hebron è particolarmente importante perché considerata dalla comunità ebraica la città dei patriarchi e per questo qui ci sono i coloni più intransigenti che purtroppo producono ragazzini violenti.

Anni fa la madre di Arwa insieme alla sua classe fu presa a sassate da ragazzini coloni. Faryel era la preside dell’istituto femminile, ora è in pensione, ed è sempre stata simbolo ed esempio di resistenza qui a TelRumeida. C’è un episodio famosissimo ripreso da un attivista internazionale che gira in rete e che è stato poi rivisitato in una serie tv britannica. Ragazzine israeliane, fra canti e inni da stadio, aspettano le loro coetanee palestinesi che escono da scuola e iniziano a insultarle, spintonarle. Il tutto sotto gli occhi dei militari israeliani che non alzano un dito. Faryel protegge le sue allieve con il suo corpo cercando di allontanarle dal pericolo, ma vengono assalite anche da ragazzini israeliani che lanciano loro sassi a distanza ravvicinata. Una fitta sassaiola arriva su queste ragazze spaventate che cercano di ripararsi il viso, la testa, mentre sanguinanti cercano di scappare. Questo significa vivere a Hebron.

Ma come la famiglia Abu Haikal ci sono altre famiglie che, con grande coraggio, decidono di rimanere anche se costrette a vivere sotto perenne assedio, intrappolate in una città paralizzata da oltre 120 checkpoint, da muri, barriere e pattuglie militari che limitano ai palestinesi tutto. Qui a Tel Rumeida ho conosciuto un’altra famiglia palestinese che resiste da anni alle violenze dei coloni e dei militari. Sono entrata nella casa del dottor Taiseer Zahdeh e di sua moglie Ibtisam HussienBlbesi per ascoltare la loro storia. La loro accoglienza è stata calorosa e totale come in tutte le case palestinesi, hanno diviso con noi il loro cibo e i loro sorrisi e hanno ricordato con grande dignità tutte le umiliazioni, le aggressioni, le minacce subite da tutta la famiglia.

Il dottor Zahdeh ha raccontato di aver avuto per mesi più di 40 soldati accampati sulla terrazza di casa, è stato arrestato, picchiato; lui, sua moglie e sua figlia. Ha raccontato le stesse violenze che sono costretti a subire tutti coloro che a Hebron decidono di non arrendersi, di non andare via. Ha infine spiegato di aver rifiutato tutte le offerte di un ufficiale israeliano che voleva comprare la sua casa ad ogni costo, fino a spegnere ogni proposta affermando con grande coraggio: “Il prezzo di questa casa è una pallottola”.

La famiglia Abu Haikal e la famiglia Zahdeh nonostante tutto resistono, mentre noi in Occidente non vediamo nulla, ignoriamo o semplicemente fingiamo di non vedere. È questo che io considero umanamente impossibile: il nostro colpevole silenzio.

Non si può più consentire questo silenzio, negli ultimi mesi la situazione è particolarmente incandescente in tutta la Palestina, ma soprattutto a Hebron. Islam,Hamam, Hadeel, Mohammed, Jasmine, Dania, sono solo alcuni dei nomi delle giovani vite sacrificate qui in una spirale di violenza iniziata lo scorso ottobre 2015. Nell’intero distretto di Hebron, secondo Issa Amro, fondatore dell’organizzazione nonviolenta Youth Against Settlements (Giovani contro gli insediamenti), le vittime palestinesi dall’inizio di ottobre sono più di 50. Spesso sono giovanissimi, giustiziati a vista dai militari in esecuzioni extragiudiziali, quasi sempre vengono lasciati morire dissanguati sulla strada. I militari li accusano di aggressioni, parlano di coltelli fra le loro mani, mentre molte fonti internazionali o palestinesi smentiscono.

Come conseguenza, vengono applicate sistematiche punizioni collettive, come la chiusura ciclica di alcune aree dichiarate “zona militare chiusa”, o del checkpoint di Shuhada Street (n. 56, che collega/divide l’area H2 con H1) dichiarato chiuso per “restauro”. Ma soprattutto sono state chiuse, ad oggi lo sono ancora, le due sedi di organizzazioni per i diritti umani a Tel Rumeida: Youth Against Settlements e l’ISM (International Solidarity Movement), una Ong internazionale. Le due organizzazioni non violente monitoravano le violazioni dei diritti umani e civili, ora nell’area H2 non c’è nessuna forma di tutela e di supervisione.

Secondo il diritto internazionale le punizioni collettive sono illegali. L’articolo 33 della quarta Convenzione di Ginevra dichiara che “nessuna persona protetta può essere punita per un reato che lui o lei non ha commesso personalmente. Pene collettive, come pure qualsiasi misura d’intimidazione o di terrorismo sono proibite”.

Arwa conosce bene tutto questo. Mi ha particolarmente colpito una sua frase con cui ha concluso una nostra chiacchierata in cui si parlava della vita quotidiana a Tel Rumeida: “Welcoming a new day with no explanation for what is going to happen. For us and our families – Diamo il benvenuto ad un nuovo giorno in cui non ci sono spiegazioni per quanto succederà. A noi e alle nostre famiglie”.Le sue parole mi hanno lasciato senza fiato. Sono insieme amare e di grande lucidità. Spiegano lo stato d’animo di chi, giorno dopo giorno, affronta l’occupazione militare in solitudine, nel silenzio della comunità internazionale, eppure dando il benvenuto a un nuovo giorno con grande coraggio e determinazione. In questa frase è racchiuso il radicamento profondo alla terra e l’appartenenza alla famiglia. Sono parole che trasudano energia e una grande forza: “resisteremo” sembra dire a tutte noi “Non andremo via”. E noi vogliamo stare con Arwa, con gli Abu Haikal, con tutte le donne e gli uomini che, pur vivendo a Hebron, sanno essere liberi dando il benvenuto a un nuovo giorno.

Per informazioni:

www.femminilepalestinese.it
https://www.facebook.com/femminile.palestinese/

pubblicato su Nena News Agency

di Maria Rosaria Greco

Ma quale ipocrita memoria, guardiamola oggi la nostra bella Europa.
Ad Amsterdam viene ufficialmente annunciata la richiesta di estendere fino a due anni (anziché sei mesi) i controlli alle frontiere. Schengen sta naufragando insieme ai barconi carichi di disperazione. E non parliamo solo di Ungheria, Croazia, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Austria, ma parliamo delle civilissime Germania, Danimarca, Svezia, Francia. La Grecia invece si vede accusata di non essere abbastanza dura, dovrebbe lasciare morire i migranti che si accalcano sulle sue coste. Per questo la Germania la vorrebbe addirittura fuori da Schengen.
Noi non la vogliamo questa Europa!
In Danimarca una legge permette di sequestrare i beni ai migranti per poter pagare le spese di accoglienza. Che vergogna, abbiamo sottratto loro tutto, abbiamo occupato le loro case, le loro identità, le loro vite, ora li umiliamo spiegando bene fin da subito che cos’è la nostra democrazia occidentale.
Noi non la vogliamo questa Europa!
E la Francia, dove ormai da mesi vige lo stato d’emergenza che verrà prorogato ulteriormente secondo il volere del democratico Hollande, valori come libertà, diritto, cittadinanza sono desueti. Secondo il filosofo Agamben arrivare ai totalitarismi è un attimo. In Germania i campi di sterminio sono stati possibili grazie allo smantellamento dello stato di diritto. Braccialetti elettronici imposti in nome della sicurezza a persone giudicate pericolose senza sufficienti elementi di incriminazione: accade oggi nella storica democrazia francese.
Noi non la vogliamo questa Europa!
Ha ragione di piangere la Cosette di Bansky apparsa in questi giorni sulle mura dell’Ambasciata francese a Londra: dietro di lei la bandiera francese tutta logora, stracciata e davanti una bomboletta di gas lacrimogeno. Evoca i Miserabili di Victor Ugo in difesa dei migranti accampati nella baraccopoli di Calais che cercano di entrare in Gran Bretagna. C’è anche un codice Qr che rimanda al video dell’Ong Calais Migrant Solidarity.

Tutto questo accade oggi in Europa, non nel passato, dovremmo vigilare e alzare la voce ora invece di fingere di guardare altrove

‪#‎notmyeurope‬ ‪#‎saveschengen‬ ‪#‎bansky‬

di Maria Rosaria Greco

23 settembre 2015 – La foto che vediamo in copertina è un selfie, come ne scattiamo tutti quando siamo in vacanza. Sono Mahmoud e Sireen, marito e moglie, sorridenti perché stavano andando in vacanza con amici per qualche giorno in Giordania, dove purtroppo non sono mai arrivati. Sono stati arrestati entrambi il 9 settembre scorso, al ponte di Allenby. Lei è stata rilasciata dopo 4 ore e lui è ancora in carcere, ad Ofer (vicino Ramallah), accusato di aver lanciato pietre a una manifestazione alla quale Mahmoud non ha mai partecipato. Questa è la loro ultima foto insieme.

E’ una storia che si ripete spesso, quella di molte donne che vedono arrestato il proprio marito dall’esercito israeliano, senza un motivo. Sireen Khudairi è una nostra amica, un’attivista della JVS (Jordan Valley Solidarity), con lei siamo state nei villaggi di Fasayil e Al Hadidiya nella Valle del Giordano, lui si chiama Mahmoud Abujoad Frarjah, anche lui attivista della stessa organizzazione.

Il 16 settembre scorso è stato portato davanti al Giudice della Corte Militare che ha deciso il rinvio del suo caso al 20 settembre. Quando si è ripresentato davanti al giudice, Mahmoud, che da subito ha dichiarato la sua innocenza, ha appreso di dover pagare una cauzione di 8.000 shekel (circa 2000 euro) per poter essere rilasciato. Ma le unità investigative interne (shabback) hanno chiesto al giudice di trattenere Mahmoud fino al giorno successivo. Il 21 settembre, infine, a Mahmoud è stato comunicato che il suo caso veniva rinviato al 27. Queste sono le pratiche illegali che abitualmente esercita Israele nei confronti dei tanti prigionieri palestinesi. Nessun rispetto della convenzione di Ginevra, delle leggi internazionali e nessuna presunzione di innocenza. Un palestinese di fronte alla legge israeliana è innanzitutto colpevole, a suo carico è l’onere di provare la sua innocenza. Mahmoud Abujoad Frarjah, nato a Gerusalemme il 3 agosto 1986, ha già subito il carcere a 20 anni, rinchiuso in una prigione israeliana per 34 mesi. Le sue colpe? L’impegno contro l’occupazione della sua terra.

Sia Mahmoud che Sireen sono attivisti della JVS, un’organizzazione che attraverso la solidarietà internazionale vuole tutelare i diritti dei palestinesi che vivono nella Valle del Giordano, quei pochi rimasti, i quali quotidianamente vengono espropriati di tutto, della terra, dell’acqua, della libertà, dell’istruzione, della vita. Qui siamo in area C dove Israele non permette ai palestinesi di costruire, nulla, ovviamente neppure le scuole. Lo scorso 20 agosto ha distrutto con i suoi bulldozer una scuola a Khirbeit Samra, nel nord della Valle, ha demolito le quattro aule ed i materiali didattici che si trovavano dentro. La scuola era stata costruita nel 2014, con l’aiuto dei volontari internazionali della Jordan Valley Solidarity in supporto ai palestinesi locali.

Qui i bambini, secondo Israele, non hanno diritto all’istruzione, non possono neppure completare un ciclo completo di istruzione primaria. E sempre qui, intere aree vengono sottratte alla popolazione in quanto dichiarate improvvisamente “firing zone”, zone destinate all’addestramento militare e quindi espropriate. Come pure sono controllate le fonti idriche della valle per il 98%. Qui quindi l’attività della JVS è fondamentale per sostenere i palestinesi costretti a vivere in povertà e senza diritti, con il terrore di continui ordini di demolizione di case, scuole, nel silenzio assoluto della comunità internazionale.

Con Sireen abbiamo visto da vicino alcuni di questi villaggi, Fasayil e Al Hadidiya. A Fasayl abbiamo mangiato insieme la mujaddara (riso e lenticchie con cipolle soffritte, un piatto arabo medievale consumato dai poveri) e ci ha spiegato come Israele dal 1967 ad oggi, si sia impossessato di tutto: della terra, dell’acqua, di tutte le risorse. Questa valle da sempre fertile e ricca di fonti idriche oggi è desertificata. L’acqua viene dirottata nelle 37 colonie agricole illegali israeliane della valle del Giordano, nelle quali si fa agricoltura intensiva destinata all’esportazione, mentre i campi beduini, privati del diritto all’acqua, sono costretti a comprare le autobotti dalla compagnia idrica israeliana che costano più di 30 shekel al metro cubo. Le vicine colonie israeliane ricevono acqua corrente in ogni momento dell’anno 24 ore su 24 a meno di 3 shekel a metro cubo.

Al Hadidiya in particolare ha una situazione estremamente critica: il consumo medio al giorno è di 20 litri pro capite (l’Organizzazione Mondiale della Sanità indica un minimo di 100 litri pro capite), nella colonia israeliana di Ro’i costruita su terre confiscate ad Al Hadidiya, a meno di 100 metri di distanza, si utilizzano 431 litri pro capite al giornosolo per uso domestico, senza considerare il consumo agricolo. Eppure, in questo villaggio poverissimo, fatto di tende e tank per l’acqua, con le galline che razzolavano intorno a noi, siamo state accolte con tutto il calore che si riserva a un ospite di riguardo, abbiamo bevuto caffè e tè servito per darci il benvenuto. Quanto della loro preziosa acqua quotidiana ci è stato donato con quel tè e caffè accompagnati dai loro sorrisi?

Queste sono le persone per cui si battono Sireen e suo marito Mahmoud. Questa è la dignità di un popolo che resiste all’occupazione illegale. La JVS porta nel suo brand proprio questo motto “to exist is to resist” esistere è resistere. Per questo Israele ha arrestato Mahmoud Abujoad Frarjah, perché fa paura il suo esempio, fa paura questa dignità che non si piega. “Mahmoud presto sarà libero – ci ha detto oggi Sireen – Ne sono sicura. Il fiore che rappresenta la Jordan Valley Solidarity è il cardo (Khorfishi), un fiore particolarmente resistente, spesso cresce fra le rocce, cresce nonostante tutto. E per noi è un segno di speranza”

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