di Maria Rosaria Greco

Hebron e le sue donne stanno a cuore alla città di Salerno. Dopo l’incontro con Arwa Abu Haikalorganizzato nell’ambito della rassegna “femminile palestinese” in cui abbiamo parlato della tenacia e fermezza, della somod nella resistenza di intere famiglie palestinesi a Tel Rumeida, cuore storico della città, ora arrivano a Salerno Nawal Slemiah, L. Awawda e M. Sharawna  della cooperativa “Women in Hebron”.

Sabato16 aprile alle 17,30 presso il CSA Jan Assen (Ex Asilo Politico) di Salerno, la cooperativa “Women in Hebron”  incontra le realtà salernitane per spiegare questa esperienza importantissima di impresa sociale, che non rappresenta solo un’occasione di guadagno per le donne coinvolte, ma prima di tutto un’occasione di emancipazione in un contesto socioculturale conservatore. Nawal Slemiah, attuale direttrice, fonda la cooperativa nel 2005 nella città vecchia iniziando a vendere alcuni manufatti nel Suq, in area H2, a pochi passi dalla moschea di Ibrahim. Oggi la cooperativa è cresciuta, da un tavolino lungo la strada è passata a un laboratorio permanente nella città vecchia. Vende prodotti artigianali, borse, portafogli, sciarpe, cuscini, tappeti, tutti fatti a mano da più di 120 donne provenienti dai villaggi nelle colline a Sud di Hebron.

Women in Hebron” è la prima e unica cooperativa di sole donne nell’area ed è stata istituita per fornire alle donne del distretto le risorse per provvedere a se stesse e alle loro famiglie attraverso la produzione e la vendita di oggetti di artigianato palestinesi. “L’obiettivo della nostra cooperativa” ha spiegato Nawal Slemiah “è quello di spingere le donne fuori di casa, offrire loro un lavoro, un’attività, che le renda indipendenti dal salario dei mariti”

Da Hebron,  cuore dell’occupazione israeliana più intransigente in Cisgiordania, ma anche città dal contesto sociale particolarmente maschilista, ci arriva un doppio messaggio di grande vitalità e forza. Una cooperativa di sole donne  afferma, da un lato, l’identità palestinese con la produzione di prodotti artigianali tipici e, dall’altro, una coscienza femminile che affronta e combatte pregiudizi e retaggi culturali che vogliono la donna rinchiusa fra le mura domestiche.

L’incontro salernitano è organizzato dall’associazione  culturale Andrea Proto nell’ambito del tour curato dall’associazione di Amicizia Italo Palestinese che prevede appuntamenti in varie città: Firenze (11 aprile) Viareggio (13 aprile) Napoli (15 aprile).

Il 16 aprile quindi tutti a Salerno, alle 17,30, al CSA Jan Assen (Ex Asilo Politico) per incontrare N. Slemiah, L. Awawda e M. Sharawna di “Women in Hebron”. Modera l’incontro Rosa Schiano, attivista di International Solidarity Movement a Gaza. Introduce Franz Cittadino (asilopolitico.org).

Sarà inoltre possibile acquistare i prodotti manufatti della cooperativa che per l’occasione saranno in esposizione. Ci saranno prodotti palestinesi tradizionali ricamati come borse, abiti, federe e centrini. In più diverse kefiah e tappeti. Non avete ancora una kefiah? Bisogna provvedere

Maggiori info
http://www.ecn.org/asilopolitico/incontro-cooperativa-women-in-hebron/ (sito CSA Jan Assen (Ex Asilo Politico)
www.womeninhebron.com (sito della cooperativa Women in Hebron)

Incontro cn Arwa Abu Haikal a Salerno (foto di Mary Ciaparrone)

 

Incontro con Arwa

Arwa Abu Haikal a Salerno (foto Maria Rosaria Greco)

Arwa è una donna libera e forte, nelle sue vene scorre il sangue degli Abu Haikal di Hebron. È a Salerno nella rassegna “Femminile palestinese” per raccontare la sua storia, nel talk “Incontro con Arwa” a cura di Maria Rosaria Greco, organizzato insieme a International Napoli Network, Casa del Contemporaneo e NenaNews Agency, il 21 marzo 2016, ore 19,00 presso il Bar Libreria G. Verdi, presentato da Sara Cimmino. Il sottotitolo della terza edizione di questa rassegna al femminile è “l’occupazione oggi” e Arwa ci porta con sé, nella vita di tutti i giorni, fra quelle strade fantasma piene di checkpoint, in quelle scuole e case violate dai militari armati, in quella che forse più di tutte in Palestina è la città emblema dell’occupazione.

La rassegna “femminile palestinese” quest’anno arriva alla terza edizione e affronta il tema del contemporaneo: “l’occupazione oggi” è il sottotitolo del 2016 e vuole analizzare qual è il quadro attuale della Palestina. L’edizione precedente aveva come sottotitolo “di storia in storia” e il focus era la narrazione, il recupero della memoria, ora è necessario capire bene qual è lo scenario a cui si è arrivati dopo quasi 70 anni di occupazione. In questa riflessione il ruolo della donna è ancora una volta centrale per come sa ridisegnare e mettere in discussione i confini e le narrazioni dominanti.

 

 

Questo tenutosi lunedì 21 marzo 2016 è il primo incontro che ci introduce nel tema dell’occupazione con una straordinaria testimonianza femminile.

Arwa Abu Haikal di Hebron è simbolo di resistenza non violenta. Lei, sua madre Feryal e la famiglia da anni resistono agli attacchi dei coloni e dei militari israeliani che cercano di cacciarli da Tel Rumeida Qui siamo in area H2, controllata da Israele. Tutto inizia nell’aprile del 1968 quando il rabbino Moshe Levinger, con la scusa di trascorrere la Pasqua ebraica qui, arriva con un primo nucleo di coloni che si stabiliscono al Park Hotel, nel cuore di Hebron, per non andare mai più via e continuare progressivamente dal suo interno l’occupazione della città. Poi nel febbraio 1994 il colono Baruch Goldstein, un fanatico di origine americana, entra nella moschea e spara sui fedeli in preghiera, uccidendo 29 palestinesi. Dopo la strage subita, paradossalmente i palestinesi vengono puniti con il protocollo di Hebron del 1997, (doveva essere provvisorio) che divide la loro città in H1 e H2. Dopo 22 anni, in H2 vivono circa 600 coloni protetti da 2000/3000 militari israeliani. Prima della divisione, i palestinesi residenti nella Città Vecchia erano 10mila, dopo quella data con il tempo il 96% dei palestinesi ha abbandonato l’area. È umanamente impossibile vivere in un luogo in cui i coloni occupano con la forza la tua casa che appartiene da secoli alla tua famiglia, in cui sei costretto a subire aggressioni e umiliazioni giorno dopo giorno, in cui l’esercito israeliano chiude il tuo negozio arbitrariamente senza sapere fino a quando. Arwa e la sua famiglia Abu Haikal resistono nonostante tutto.

 

Incontro con Arwa Abu Haikal a Salerno (foto Mary Ciaparrone)

 

Ci ha particolarmente colpito una frase con cui Arwa ha concluso una chiacchierata parlando della vita quotidiana a Tel Rumeida: “Welcoming a new day with no explanation for what is going to happen. For us and our families – Diamo il benvenuto ad un nuovo giorno in cui non ci sono spiegazioni per quanto succederà. A noi e alle nostre famiglie”. Le sue parole sono insieme amare e di grande lucidità. Spiegano lo stato d’animo di chi, giorno dopo giorno, affronta l’occupazione militare in solitudine, nel silenzio della comunità internazionale, eppure dando il benvenuto a un nuovo giorno con grande forza e determinazione. In questa frase è racchiuso il radicamento profondo alla terra e l’appartenenza alla famiglia. “resisteremo” sembra dire a tutte noi” E noi vogliamo stare con Arwa, con gli Abu Haikal, con tutte le donne e gli uomini che, pur vivendo a Hebron, sanno essere liberi dando il benvenuto a un nuovo giorno.

Scene from Peter Kosminsky’s film “The Promise” which re-enacts events at Qurdoba School (Hebron) in 2005 in which Faryel Abu Haikal protects her students. In Salerno in March, the 21 we’ll host her daughter Arwa Abu Haikal

di Maria Rosaria Greco

Arwa è una donna libera e forte, nelle sue vene scorre il sangue degli Abu Haikal di Hebron. È con noi nella rassegna “Femminile palestinese”per raccontarci la sua storia, nel talk “Incontro con Arwa” (organizzato insieme a International Napoli Network, Casa del Conteporaneo, NenaNews Agency) che si tiene il 21 marzo 2016 a Salerno. Il sottotitolo di questa terza edizione è “l’occupazione oggi” e Arwa ci porterà con sé, nella vita di tutti i giorni, fra quelle strade fantasma piene di checkpoint, in quelle scuole e case violate dai militari armati, in quella che forse più di tutte in Palestina è la città emblema dell’occupazione.

Arwa Abu Haikal è di Al Khalil, antica città araba oggi chiamata Hebron da Israele. Lei, sua madre Faryel e la sua famiglia difendono da decenni le loro case e la loro terra dagli attacchi dei coloni del vicino insediamento illegale di TelRumeida. Qui i coloni, protetti dai militari israeliani, sono famosi per essere particolarmente ultranazionalisti, fra i più pericolosi in Cisgiordania. Uno di loro tempo fa ferisce gravemente Arwa con un bastone di legno durante una delle tante aggressioni di massa. Come conseguenza la famiglia Abu Haikal viene condannata al pagamento di una multa di 1.500 shekel. A Hebron se sei arabo non hai diritti e non puoi essere vittima. Il paradosso è che qua gli oppressi devono pagare per l’aggressione subita dall’oppressore.

Le quattro case della famiglia sorgono sulla collinetta di TelRumeida, nel centro storico di Al Khalil, un tempo erano immerse fra gli alberi. Ora sono circondate da insediamenti ebraici da cui spesso partono spedizioni punitive contro la loro proprietà ormai rinchiusa fra recinzioni, filo spinato e avamposti militari. Incendi dolosi e minacce continue da parte dei coloni, pesanti multe inflitte come punizioni arbitrarie, perquisizioni violente da parte dei militari che entrano armati nelle loro case e picchiano uomini e donne, sono la “normale” vita quotidiana.

Qui siamo in area H2, controllata da Israele. Tutto inizia nell’aprile del 1968 quando il rabbino Moshe Levinger, con la scusa di trascorrere la Pasqua ebraica qui,  arriva con un primo nucleo di coloni che si stabiliscono al Park Hotel, nel cuore di Hebron, per non andare mai più via e continuare progressivamente dal suo interno l’occupazione della città. Poi nel febbraio 1994 il colono Baruch Goldstein, un fanatico di origine americana, entra nella moschea e spara sui fedeli in preghiera, uccidendo 29 palestinesi. La strage subita, purtroppo, in questo luogo abbandonato dal diritto non è sufficiente per certificare chi è la vittima e chi è il carnefice. Così paradossalmente vengono puniti i palestinesi che assistono impotenti, con il protocollo di Hebron del 1997, alla divisione (che doveva essere provvisoria) della loro città in H1 e H2. Dopo 22 anni, in H2 vivono circa 600 coloni protetti da 2000/3000 militari israeliani. Prima della divisione, i palestinesi residenti nella Città Vecchia erano 10mila, dopo quella data con il tempo il 96% dei palestinesi ha abbandonato l’area.

È umanamente impossibile vivere in un luogo in cui i coloni, arrivati da varie parti del mondo con convinzioni fanatiche, occupano con la forza la tua casa che appartiene da secoli alla tua famiglia, in cui sei costretto a subire aggressioni e umiliazioni giorno dopo giorno, in cui l’esercito israeliano chiude il tuo negozio arbitrariamente senza sapere fino a quando (come in Shuhada Street, che prima era il cuore economico della città, ora è diventata una strada fantasma). I coloni possono tutto, si muovono in un regime di totale impunità in cui violenza e sopruso sui nativi palestinesi sono il linguaggio quotidiano. Però io penso sia ancora più umanamente impossibile far finta di niente, tacere di fronte a tutto questo dalle nostre comode postazioni occidentali.

La famiglia Abu Haikal resiste, rimane, nonostante tutto. L’esercito israeliano ha provato in tutti i modi a prendersi le loro case, sono state offerte cifre incredibili per convincerli a vendere e andare via. Ma niente ha smosso la loro ferma volontà di restare. Nel 2014, i coloni decidono di usare un’altra arma, chiedono l’approvazione di un’imponente progetto che viene finanziato e iniziano i lavori. Un grande parco archeologico ebraico sorgerà proprio dove c’erano i mandorli e gli ulivi della famiglia Abu Haikal. Si cercano importanti reperti ebraici, solo che nel febbraio 2014, viene scoperta una antica tomba musulmana costruita in pietra direttamente sulla roccia e orientata verso La Mecca. La tomba viene smantellata a dispetto di qualsiasi etica di tipo archeologico o religioso. Nessun diritto neppure per i morti qui a Hebron e nessun rispetto soprattutto per la memoria storica, che anzi va cancellata.

Ho visto da vicino questo scavo archeologico, che è proprio a ridosso della proprietà Abu Haikal tanto da spingere tempo fa Arwa e la madre Faryela contrapporsi per ore ai bulldozer che volevano scavare via i loro alberi, la loro recinzione. Due donne apparentemente indifese, il loro corpo come unica arma, eppure tanto forti da determinare il blocco dello scavatore.

Quando guardai lo scavo archeologico, nel novembre 2014, rimasi colpita tra l’altro da un particolare: la manodopera era palestinese, come accade anche nelle colonie israeliane dove agli arabi toccano i lavori più umili, spesso senza assicurazioni e per quattro soldi. È l’umiliazione ulteriore dell’occupazione.

Ovviamente l’obiettivo chiaro è quello di eliminare, con il tempo, qualsiasi presenza palestinese: Israele vuole la terra senza i nativi dentro. La colonizzazione quindi avanza e l’archeologia è solo uno degli strumenti usati per cambiare di fatto lo status quo. Altri siti archeologici hanno la stessa funzione, accade per esempio a Gerusalemme con la Città di David che incombe sul quartiere arabo di Silwan. L’archeologia è un modo per sottrarre terra in zone strategiche. Hebron è particolarmente importante perché considerata dalla comunità ebraica la città dei patriarchi e per questo qui ci sono i coloni più intransigenti che purtroppo producono ragazzini violenti.

Anni fa la madre di Arwa insieme alla sua classe fu presa a sassate da ragazzini coloni. Faryel era la preside dell’istituto femminile, ora è in pensione, ed è sempre stata simbolo ed esempio di resistenza qui a TelRumeida. C’è un episodio famosissimo ripreso da un attivista internazionale che gira in rete e che è stato poi rivisitato in una serie tv britannica. Ragazzine israeliane, fra canti e inni da stadio, aspettano le loro coetanee palestinesi che escono da scuola e iniziano a insultarle, spintonarle. Il tutto sotto gli occhi dei militari israeliani che non alzano un dito. Faryel protegge le sue allieve con il suo corpo cercando di allontanarle dal pericolo, ma vengono assalite anche da ragazzini israeliani che lanciano loro sassi a distanza ravvicinata. Una fitta sassaiola arriva su queste ragazze spaventate che cercano di ripararsi il viso, la testa, mentre sanguinanti cercano di scappare. Questo significa vivere a Hebron.

Ma come la famiglia Abu Haikal ci sono altre famiglie che, con grande coraggio, decidono di rimanere anche se costrette a vivere sotto perenne assedio, intrappolate in una città paralizzata da oltre 120 checkpoint, da muri, barriere e pattuglie militari che limitano ai palestinesi tutto. Qui a Tel Rumeida ho conosciuto un’altra famiglia palestinese che resiste da anni alle violenze dei coloni e dei militari. Sono entrata nella casa del dottor Taiseer Zahdeh e di sua moglie Ibtisam HussienBlbesi per ascoltare la loro storia. La loro accoglienza è stata calorosa e totale come in tutte le case palestinesi, hanno diviso con noi il loro cibo e i loro sorrisi e hanno ricordato con grande dignità tutte le umiliazioni, le aggressioni, le minacce subite da tutta la famiglia.

Il dottor Zahdeh ha raccontato di aver avuto per mesi più di 40 soldati accampati sulla terrazza di casa, è stato arrestato, picchiato; lui, sua moglie e sua figlia. Ha raccontato le stesse violenze che sono costretti a subire tutti coloro che a Hebron decidono di non arrendersi, di non andare via. Ha infine spiegato di aver rifiutato tutte le offerte di un ufficiale israeliano che voleva comprare la sua casa ad ogni costo, fino a spegnere ogni proposta affermando con grande coraggio: “Il prezzo di questa casa è una pallottola”.

La famiglia Abu Haikal e la famiglia Zahdeh nonostante tutto resistono, mentre noi in Occidente non vediamo nulla, ignoriamo o semplicemente fingiamo di non vedere. È questo che io considero umanamente impossibile: il nostro colpevole silenzio.

Non si può più consentire questo silenzio, negli ultimi mesi la situazione è particolarmente incandescente in tutta la Palestina, ma soprattutto a Hebron. Islam,Hamam, Hadeel, Mohammed, Jasmine, Dania, sono solo alcuni dei nomi delle giovani vite sacrificate qui in una spirale di violenza iniziata lo scorso ottobre 2015. Nell’intero distretto di Hebron, secondo Issa Amro, fondatore dell’organizzazione nonviolenta Youth Against Settlements (Giovani contro gli insediamenti), le vittime palestinesi dall’inizio di ottobre sono più di 50. Spesso sono giovanissimi, giustiziati a vista dai militari in esecuzioni extragiudiziali, quasi sempre vengono lasciati morire dissanguati sulla strada. I militari li accusano di aggressioni, parlano di coltelli fra le loro mani, mentre molte fonti internazionali o palestinesi smentiscono.

Come conseguenza, vengono applicate sistematiche punizioni collettive, come la chiusura ciclica di alcune aree dichiarate “zona militare chiusa”, o del checkpoint di Shuhada Street (n. 56, che collega/divide l’area H2 con H1) dichiarato chiuso per “restauro”. Ma soprattutto sono state chiuse, ad oggi lo sono ancora, le due sedi di organizzazioni per i diritti umani a Tel Rumeida: Youth Against Settlements e l’ISM (International Solidarity Movement), una Ong internazionale. Le due organizzazioni non violente monitoravano le violazioni dei diritti umani e civili, ora nell’area H2 non c’è nessuna forma di tutela e di supervisione.

Secondo il diritto internazionale le punizioni collettive sono illegali. L’articolo 33 della quarta Convenzione di Ginevra dichiara che “nessuna persona protetta può essere punita per un reato che lui o lei non ha commesso personalmente. Pene collettive, come pure qualsiasi misura d’intimidazione o di terrorismo sono proibite”.

Arwa conosce bene tutto questo. Mi ha particolarmente colpito una sua frase con cui ha concluso una nostra chiacchierata in cui si parlava della vita quotidiana a Tel Rumeida: “Welcoming a new day with no explanation for what is going to happen. For us and our families – Diamo il benvenuto ad un nuovo giorno in cui non ci sono spiegazioni per quanto succederà. A noi e alle nostre famiglie”.Le sue parole mi hanno lasciato senza fiato. Sono insieme amare e di grande lucidità. Spiegano lo stato d’animo di chi, giorno dopo giorno, affronta l’occupazione militare in solitudine, nel silenzio della comunità internazionale, eppure dando il benvenuto a un nuovo giorno con grande coraggio e determinazione. In questa frase è racchiuso il radicamento profondo alla terra e l’appartenenza alla famiglia. Sono parole che trasudano energia e una grande forza: “resisteremo” sembra dire a tutte noi “Non andremo via”. E noi vogliamo stare con Arwa, con gli Abu Haikal, con tutte le donne e gli uomini che, pur vivendo a Hebron, sanno essere liberi dando il benvenuto a un nuovo giorno.

Per informazioni:

www.femminilepalestinese.it
https://www.facebook.com/femminile.palestinese/

pubblicato su Nena News Agency

di Maria Rosaria Greco

Ma quale ipocrita memoria, guardiamola oggi la nostra bella Europa.
Ad Amsterdam viene ufficialmente annunciata la richiesta di estendere fino a due anni (anziché sei mesi) i controlli alle frontiere. Schengen sta naufragando insieme ai barconi carichi di disperazione. E non parliamo solo di Ungheria, Croazia, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Austria, ma parliamo delle civilissime Germania, Danimarca, Svezia, Francia. La Grecia invece si vede accusata di non essere abbastanza dura, dovrebbe lasciare morire i migranti che si accalcano sulle sue coste. Per questo la Germania la vorrebbe addirittura fuori da Schengen.
Noi non la vogliamo questa Europa!
In Danimarca una legge permette di sequestrare i beni ai migranti per poter pagare le spese di accoglienza. Che vergogna, abbiamo sottratto loro tutto, abbiamo occupato le loro case, le loro identità, le loro vite, ora li umiliamo spiegando bene fin da subito che cos’è la nostra democrazia occidentale.
Noi non la vogliamo questa Europa!
E la Francia, dove ormai da mesi vige lo stato d’emergenza che verrà prorogato ulteriormente secondo il volere del democratico Hollande, valori come libertà, diritto, cittadinanza sono desueti. Secondo il filosofo Agamben arrivare ai totalitarismi è un attimo. In Germania i campi di sterminio sono stati possibili grazie allo smantellamento dello stato di diritto. Braccialetti elettronici imposti in nome della sicurezza a persone giudicate pericolose senza sufficienti elementi di incriminazione: accade oggi nella storica democrazia francese.
Noi non la vogliamo questa Europa!
Ha ragione di piangere la Cosette di Bansky apparsa in questi giorni sulle mura dell’Ambasciata francese a Londra: dietro di lei la bandiera francese tutta logora, stracciata e davanti una bomboletta di gas lacrimogeno. Evoca i Miserabili di Victor Ugo in difesa dei migranti accampati nella baraccopoli di Calais che cercano di entrare in Gran Bretagna. C’è anche un codice Qr che rimanda al video dell’Ong Calais Migrant Solidarity.

Tutto questo accade oggi in Europa, non nel passato, dovremmo vigilare e alzare la voce ora invece di fingere di guardare altrove

‪#‎notmyeurope‬ ‪#‎saveschengen‬ ‪#‎bansky‬

di Maria Rosaria Greco

23 settembre 2015 – La foto che vediamo in copertina è un selfie, come ne scattiamo tutti quando siamo in vacanza. Sono Mahmoud e Sireen, marito e moglie, sorridenti perché stavano andando in vacanza con amici per qualche giorno in Giordania, dove purtroppo non sono mai arrivati. Sono stati arrestati entrambi il 9 settembre scorso, al ponte di Allenby. Lei è stata rilasciata dopo 4 ore e lui è ancora in carcere, ad Ofer (vicino Ramallah), accusato di aver lanciato pietre a una manifestazione alla quale Mahmoud non ha mai partecipato. Questa è la loro ultima foto insieme.

E’ una storia che si ripete spesso, quella di molte donne che vedono arrestato il proprio marito dall’esercito israeliano, senza un motivo. Sireen Khudairi è una nostra amica, un’attivista della JVS (Jordan Valley Solidarity), con lei siamo state nei villaggi di Fasayil e Al Hadidiya nella Valle del Giordano, lui si chiama Mahmoud Abujoad Frarjah, anche lui attivista della stessa organizzazione.

Il 16 settembre scorso è stato portato davanti al Giudice della Corte Militare che ha deciso il rinvio del suo caso al 20 settembre. Quando si è ripresentato davanti al giudice, Mahmoud, che da subito ha dichiarato la sua innocenza, ha appreso di dover pagare una cauzione di 8.000 shekel (circa 2000 euro) per poter essere rilasciato. Ma le unità investigative interne (shabback) hanno chiesto al giudice di trattenere Mahmoud fino al giorno successivo. Il 21 settembre, infine, a Mahmoud è stato comunicato che il suo caso veniva rinviato al 27. Queste sono le pratiche illegali che abitualmente esercita Israele nei confronti dei tanti prigionieri palestinesi. Nessun rispetto della convenzione di Ginevra, delle leggi internazionali e nessuna presunzione di innocenza. Un palestinese di fronte alla legge israeliana è innanzitutto colpevole, a suo carico è l’onere di provare la sua innocenza. Mahmoud Abujoad Frarjah, nato a Gerusalemme il 3 agosto 1986, ha già subito il carcere a 20 anni, rinchiuso in una prigione israeliana per 34 mesi. Le sue colpe? L’impegno contro l’occupazione della sua terra.

Sia Mahmoud che Sireen sono attivisti della JVS, un’organizzazione che attraverso la solidarietà internazionale vuole tutelare i diritti dei palestinesi che vivono nella Valle del Giordano, quei pochi rimasti, i quali quotidianamente vengono espropriati di tutto, della terra, dell’acqua, della libertà, dell’istruzione, della vita. Qui siamo in area C dove Israele non permette ai palestinesi di costruire, nulla, ovviamente neppure le scuole. Lo scorso 20 agosto ha distrutto con i suoi bulldozer una scuola a Khirbeit Samra, nel nord della Valle, ha demolito le quattro aule ed i materiali didattici che si trovavano dentro. La scuola era stata costruita nel 2014, con l’aiuto dei volontari internazionali della Jordan Valley Solidarity in supporto ai palestinesi locali.

Qui i bambini, secondo Israele, non hanno diritto all’istruzione, non possono neppure completare un ciclo completo di istruzione primaria. E sempre qui, intere aree vengono sottratte alla popolazione in quanto dichiarate improvvisamente “firing zone”, zone destinate all’addestramento militare e quindi espropriate. Come pure sono controllate le fonti idriche della valle per il 98%. Qui quindi l’attività della JVS è fondamentale per sostenere i palestinesi costretti a vivere in povertà e senza diritti, con il terrore di continui ordini di demolizione di case, scuole, nel silenzio assoluto della comunità internazionale.

Con Sireen abbiamo visto da vicino alcuni di questi villaggi, Fasayil e Al Hadidiya. A Fasayl abbiamo mangiato insieme la mujaddara (riso e lenticchie con cipolle soffritte, un piatto arabo medievale consumato dai poveri) e ci ha spiegato come Israele dal 1967 ad oggi, si sia impossessato di tutto: della terra, dell’acqua, di tutte le risorse. Questa valle da sempre fertile e ricca di fonti idriche oggi è desertificata. L’acqua viene dirottata nelle 37 colonie agricole illegali israeliane della valle del Giordano, nelle quali si fa agricoltura intensiva destinata all’esportazione, mentre i campi beduini, privati del diritto all’acqua, sono costretti a comprare le autobotti dalla compagnia idrica israeliana che costano più di 30 shekel al metro cubo. Le vicine colonie israeliane ricevono acqua corrente in ogni momento dell’anno 24 ore su 24 a meno di 3 shekel a metro cubo.

Al Hadidiya in particolare ha una situazione estremamente critica: il consumo medio al giorno è di 20 litri pro capite (l’Organizzazione Mondiale della Sanità indica un minimo di 100 litri pro capite), nella colonia israeliana di Ro’i costruita su terre confiscate ad Al Hadidiya, a meno di 100 metri di distanza, si utilizzano 431 litri pro capite al giornosolo per uso domestico, senza considerare il consumo agricolo. Eppure, in questo villaggio poverissimo, fatto di tende e tank per l’acqua, con le galline che razzolavano intorno a noi, siamo state accolte con tutto il calore che si riserva a un ospite di riguardo, abbiamo bevuto caffè e tè servito per darci il benvenuto. Quanto della loro preziosa acqua quotidiana ci è stato donato con quel tè e caffè accompagnati dai loro sorrisi?

Queste sono le persone per cui si battono Sireen e suo marito Mahmoud. Questa è la dignità di un popolo che resiste all’occupazione illegale. La JVS porta nel suo brand proprio questo motto “to exist is to resist” esistere è resistere. Per questo Israele ha arrestato Mahmoud Abujoad Frarjah, perché fa paura il suo esempio, fa paura questa dignità che non si piega. “Mahmoud presto sarà libero – ci ha detto oggi Sireen – Ne sono sicura. Il fiore che rappresenta la Jordan Valley Solidarity è il cardo (Khorfishi), un fiore particolarmente resistente, spesso cresce fra le rocce, cresce nonostante tutto. E per noi è un segno di speranza”

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di Maria Rosaria Greco

In questi mesi abbiamo assistito inermi alla distruzione di Mosul, in Iraq, e di Hatra e di Nimrud da parte delle milizie dello Stato Islamico. Tutto il mondo si è indignato di fronte alla devastazione di un patrimonio culturale appartenente all’intera umanità. Sappiamo tutti purtroppo che l’Isis è uno stato terrorista. Di poche ore fa è la notizia dell’uccisione assurda dell’archeologo Khaled Asaad , ex direttore delle antichità e dei musei del sito archeologico di Palmira, in Siria, decapitato dagli uomini del Califfato perché colpevole di aver messo in salvo centinaia di statue romane.

In questi giorni invece abbiamo visto i bulldozer di Israele a Beit Jala, a 5 km da Betlemme, nella valle di Cremisan, che hanno sradicato circa un centinaio di ulivi, tra cui molti secolari, per preparare il tracciato su cui costruire il vergognoso “Muro di separazione”, che isolerà Cremisan da Beit Jala e quindi dalla Palestina. Tutta l’area di fatto viene inglobata in territorio israeliano, confiscandola alle 58 famiglie palestinesi proprietarie, per unire le due colonie di Gilo (residenza di Fiamma Nirenstein, prossima ambasciatrice di Israele in Italia) e Har Gilo. A nulla sono valse le azioni legali e le proteste durate nove anni, da parte sia della comunità palestinese. Insieme alle famiglie palestinesi e al Comune si sono costituiti il Monastero salesiano, che produce il noto vino Cremisan, e la Scuola materna, gestita dalle suore, che ospita più di 400 bambini di varie religioni. Vogliamo solo ricordare che i vitigni autoctoni di Cremisan producono vino dalla fine dell’Ottocento, secondo gli archeologi qui si trova uno tra i più antichi insediamenti agricoli e artigiani della Palestina. E sempre in questa zona si trova Battir, un villaggio proclamato dall’Unesco patrimonio dell’umanità.

La Corte Suprema d’Israele, dopo un apparente accoglimento delle richieste della popolazione locale nell’aprile scorso, con una nuova disposizione del 7 luglio us (casualmente subito dopo che la Santa Sede aveva riconosciuto ufficialmente lo stato di Palestina) si è rimangiata tutto, autorizzando la costruzione del “Muro di separazione”, ma con un percorso lievemente alternativo. Il Ministero della Difesa dunque ha ottenuto quanto voleva, dovendo rinunciare soltanto alla scuola e ai due conventi salesiani, che, per ora, rimangono in territorio palestinese. La politica dei fatti continua, già le colonie di Gilo e Har Gilo erano state costruite su terra sottratta ai palestinesi, già Betlemme era stata tagliata dal muro di separazione e ora tutta la bellissima vallata di Cremisan verrà devastata, annientandone l’economia locale come già successo ovunque venga innalzato il muro.

Ma oltre al patrimonio paesaggistico e culturale di Cremisan, altri patrimoni vengono minacciati da Israele, in alcuni casi è già iniziata la distruzione. Il cimitero di Mamilla per esempio. Dall`arabo ma`man Allah, “santuario di Allah”, è il più grande e antico cimitero musulmano di Gerusalemme, risale al 7° secolo e contiene le tombe di compagni di Maometto, di santi di fede Sufi e di importanti famiglie di intellettuali e personalità di spicco gerosolomitane. Oltre a essere un luogo di fede, Il Consiglio Superiore Musulmano, nel 1927, lo definì luogo storico e le autorità del Mandato Britannico, nel 1944, lo dichiararono area archeologica. Il cimitero si trova nella parte ovest della città ed è rimasto attivo fino al 1948, quando Israele conquistò questa parte di Gerusalemme. Tel Aviv ne ha iniziato lo smantellamento per costruirvi sopra il “Museo della tolleranza”, che sarà composto da 192 unità abitative, un centro commerciale, un hotel da 480 camere e parcheggi per auto. Il tema del futuro Museo naturalmente è “il rispetto reciproco e la responsabilità sociale”. Ci piace pensare che una civiltà si misuri in base al rispetto che ha per i morti. Su questo poi si dovrebbe fondare l’eventuale rispetto per i vivi.

E rimanendo a Gerusalemme, molto preoccupante è la sorte di un altro luogo stupendo, sicuramente patrimonio culturale di grande rilievo, particolarmente caro ai fedeli delle tre religioni monoteiste, ma soprattutto ai musulmani: la spianata delle Moschee, considerata dall’Unesco e patrimonio dell’umanità come pure tutta la città vecchia di Gerusalemme. Tutta quest’area fu occupata da Israele nel 1967, e nel 1980 il parlamento israeliano approvò la cosiddetta “legge fondamentale” che proclamava unilateralmente “Gerusalemme, unita e indivisa […] capitale di Israele”. Ma il Consiglio di Sicurezza dell’ONU nella risoluzione 478 annullò la “legge fondamentale” definendola “nulla e priva di validità, oltre che una violazione del diritto internazionale e un serio ostacolo al raggiungimento della pace in Medio Oriente”

Eppure si fanno sempre più insistenti le voci, le provocazioni, le aspettative, gli scontri relativi proprio alla Spianata delle Moschee, che, per inciso, non esiste su Wikipedia: se si digita infatti “spianata delle moschee” appare la pagina “Monte del Tempio” come la chiamano gli Ebrei, che strane queste dinamiche di ricerca, vero? Ora, non esistendo in effetti come prima voce, (nella pagina “Monte del Tempio” poi se ne parla ovviamente, come secondo passaggio però) l’Istituto per il Tempio legittimamente progetta, in maniera sempre più concreta, la ricostruzione del terzo Tempio ebraico, esattamente dove da 1300 anni è situata la Cupola della Roccia islamica. Qualche anno fa sembravano bizzarre le pretese di pochi fanatici che ora, invece, sono sostenute da ministri e deputati. I primi a parlare di ricostruire il Tempio sono stati “I Fedeli del Monte del Tempio”, un gruppo guidato dal rabbino Yehuda Glick, attivista dell’ultra-destra, che nello scorso novembre rimase ferito in un attentato (il presunto attentatore di 32 anni fu subito ucciso dall’esercito israeliano in una esecuzione sommaria sulla terrazza di casa sua, casa che venne naturalmente demolita). Glick è stato protagonista di molte incursioni sulla spianata, con lo scopo di estendere la sovranità israeliana sulla Spianata delle moschee, contro le leggi stesse di Israele che vi vietano l’ingresso ai fedeli ebrei, i quali, dal 1967, hanno come luogo per il culto il Muro Occidentale detto Muro del pianto. Queste incursioni sono aumentate sempre più, gestite dai giovani di Casa Ebraica, e sempre più in maniera ufficiale si parla di costruire il tempio ebraico che ovviamente significherebbe smantellare la spianata delle Moschee, terzo luogo santo dell’Islam. Proviamo per un attimo a pensare se un musulmano provasse a presentarsi al Muro del pianto per pregare, quale sarebbe la reazione e lo sdegno di tutta la comunità internazionale? E Israele tutta sarebbe scossa da un terremoto. Eppure l’Istituto del Tempio a Gerusalemme, con assoluta naturalezza, da quasi trent’anni progetta la ricostruzione del Tempio ebraico. Oggi nella Knesset, il Parlamento israeliano, ci sono ben 12 deputati che sostengono questo progetto, in tutti i modi. Quando assisteremo quindi alla demolizione della Cupola della Roccia?

Israele sta sistematicamente cancellando il passato dei palestinesi, distruggendone il patrimonio culturale e paesaggistico, esattamente come fa l’Isis. Solo che il Califfato viene definito da tutti uno stato terrorista, colpevole tra l’altro di assurde esecuzioni. Eppure l’esercito israeliano dall’inizio dell’anno a oggi ha ucciso 25 giovani in Cisgiordania, senza parlare delle violenze di queste ore contro chi manifesta legittimamente nella valle di Cremisan per difendere la propria terra, i propri alberi, i propri diritti. Ma allora perché Israele viene definita l’unica democrazia nel Medio Oriente?

pubblicato su NenaNews.it 

 di Maria Rosaria Greco

Gerusalemme, 12 novembre 2014 – Hanno occhi stupendi e sanno sorridere. Sanno anche alzare la voce senza abbassare lo sguardo. Di alcune conosco il nome, di altre mi rimarrà solo il ricordo di un volto, di una voce, di un momento. Sono bambine e donne incontrate nelle strade di Ramallah, nelle case di Hebron, sugli autobus 21 e 24 da e per Gerusalemme, ai checkpoint e nei campi profughi intorno Betlemme, nelle comunità beduine della valle del Giordano o sulla spianata delle Moschee a Gerusalemme.

“Allahu Akbar, Allahu Akbar” gridavano forte, ragazze e anziane in preghiera, erano centinaia e tutte compatte, davanti alla Moschea Al Aqsa. Lo sdegno si levava contro la profanazione del loro luogo sacro da parte di alcuni coloni che per provocazione passeggiavano indisturbati sulla spianata delle moschee, protetti dai mitra dei soldati israeliani e con l’intento di pregare lì, in uno spazio normalmente proibito alle preghiere non musulmane. Un’unica voce di sdegno la loro e un unico brivido alla schiena il mio nell’ascoltare, quasi toccare con mano questa rabbia tangibile, incarnata da donne per nulla intimorite dai militari in assetto da guerra, donne che, nei cliché di noi occidentali, vivono sottomesse.

Invece di Shirin conosco il nome e la sua storia incredibile, purtroppo simile a quella di molte altre donne in Palestina, conosco il colore miele dei suoi occhi, il suo sguardo fiero. Ha 34 anni, non è sposata e vive con i genitori e la zia a Husan, un villaggio nell’aera di Betlemme, circondato da una bypass road, dal muro che lì è una barriera metallica, e dalla colonia di Bitar Illit (di circa 50 abitanti) costruita su terra confiscata agli abitanti di Husan. Shirin ha 5 sorelle e 2 fratelli. Nel 2003 suo fratello, con laurea specialistica in legge, viene arrestato perché accusato dell’organizzazione di un attentato terroristico. Oggi deve scontare una condanna di 9 ergastoli, Shirin ne parla con la certezza di non riuscire a vederlo mai più.

Nel 2004 le forze israeliane demoliscono la sua casa. Come di consueto arrivano alle 2 di notte, concedendo alla famiglia solo 15 minuti per prendere gli oggetti personali. Quindici minuti per portare con te la tua vita sono una ferita lacerante. Quindici minuti prima che venga distrutto per sempre un pezzo di te. Che cosa si può portare con sé in 15 minuti se non il dolore più profondo? E siccome siamo in area C, chi vede la propria casa abbattuta poi non ha il diritto di ricostruirla. Quindi Shirin e la famiglia vivono in affitto per anni fino a quando, circa due anni fa, riescono ad ottenere il permesso di costruire dietro il pagamento di una cifra enorme (10 mila dinari giordani) e si trasferiscono nella casa nuova.

Per fortuna la sua famiglia ha molte terre, anche se molti ettari sono stati loro confiscati dalle autorità israeliane. Hanno costantemente problemi con i coloni che, per esempio, a maggio scorso hanno bruciato 156 alberi di ulivo nei loro campi. Due settimane fa il suo secondo fratello di soli 24 anni, l’unico ancora libero, è stato arrestato con l’accusa di aver tirato sassi contro l’esercito israeliano. Hanno fatto incursione di notte e l’hanno portato via. Di tutta la famiglia solo una sorella è riuscita ad avere il permesso per andare a trovare il fratello in prigione in Israele. Shirin ce l’aveva e poi improvvisamente un giorno, mentre era al checkpoint, gliel’hanno ritirato senza spiegazioni.

Eppure, mentre mangiavamo insieme la mujaddara (riso e lenticchie con cipolle soffritte, un piatto arabo medievale consumato dai poveri), lei mi sorride perché sa ancora sorridere e resistere. E mi viene in mente quel detto arabo che recita che “un uomo affamato sarebbe disposto a vendere l’anima per un piatto di mujaddara”. Sorrido anch’io a Shirin, mentre ho un’idea curiosa: per un attimo mi diverte pensare che forse un uomo affamato potrebbe anche vendere la sua anima per un piatto di lenticchie e riso, come è scritto anche nella bibbia, ma Shirin no, lei non lo farebbe mai.

Ma l’incontro che mi ha devastato è stato con una bambina bionda dagli occhi azzurri, di circa 7 o 8 anni, il sorriso sdentato di chi ha perso da poco i denti da latte. Mi ha fatto piangere facendomi sentire io più bambina di lei. Eravamo nel campo beduino di Al Hadidiya dove abbiamo incontrato, insieme alla sua famiglia, Abu Saqr, il capo di questa piccola comunità nel nord della Valle del Giordano, che ci ha spiegato come Israele si sia impossessato gradualmente dal 1967 ad oggi di tutto: della terra, dell’acqua. Questa valle da sempre fertile e ricca di fonti idriche oggi è desertificata. L’acqua viene dirottata nelle 37 colonie agricole illegali israeliane della valle del Giordano, nelle quali si fa agricoltura intensiva destinata all’esportazione, mentre i campi beduini, privati del diritto all’acqua, sono costretti a comprare le autobotti dalla compagnia idrica israeliana che costano più di 30 shekel al metro cubo. Le vicine colonie israeliane ricevono acqua corrente in ogni momento dell’anno 24 ore su 24 a meno di 3 shekel a metro cubo.

In particolare i dati del consumo quotidiano soprattutto qui nella comunità beduina Al Hadidiya mostrano una situazione estremamente critica: il consumo medio al giorno è di 20 litri pro capite (l’Organizzazione Mondiale della Sanità indica un minimo di 100 litri pro capite!), nella colonia israeliana di Ro’i costruita su terre confiscate ad Al Hadidiya, a meno di 100 metri di distanza, si utilizzano 431 litri pro capite al giorno, solo per uso domestico, senza considerare il consumo agricolo (una quantità d’acqua 20 volte superiore!).
Al Hadidiya è un villaggio poverissimo fatto di tende e tank per l’acqua, con le galline che razzolano intorno a noi mentre il sole tramonta e c’è una luce dorata che illumina di morbido i volti, i colori, il caffè che ci viene servito per darci il benvenuto. Mi chiedo quanto della loro preziosa acqua quotidiana ci è stato donato con il thè e il caffè che abbiamo bevuto.

E lei andava avanti e indietro nascondendosi fra gli adulti, questa bimba bionda con un maglioncino rosa, poi è sparita per ricomparire solo alla fine mentre stavamo lasciando il campo. Fa capolino da una tenda e ci sorride tutta sdentata. Appena sopra di lei, ferma sulla tenda, c’era una colomba bianca che per tutto il tempo non è volata via. Hadeel si dice in arabo colomba. Hadeel è anche un nome femminile diffuso. Mi piace pensare che Hadeel fosse il nome di questa bambina delicata e leggera. Si divertiva un mondo a farmi il verso: la saluto con la mano e lei saluta con la sua, le mando i bacini con la mano e lei ricambia, un amico le fa le boccacce e lei ripete.

Ma dovevamo andare via e io non riuscivo a staccarmi da lei così felice e così vitale: allora alzo il braccio con l’indice e il medio in segno di vittoria e lei mi risponde. Quel braccino tenero, vestito di rosa, quegli occhioni azzurri che potevano usare solo 20 litri di acqua al giorno, invocavano la vittoria. La sua manina alzata con il segno della V rimaneva fermamente tesa mentre ci allontanavamo da lei. Non sono riuscita a trattenere le lacrime.

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