Il prossimo appuntamento della rassegna “Femminile palestinese” prevede la Mostra “Comunicare la Palestina, una narrazione diversa” a cura di Pino Grimaldi e Enrica D’Aguanno, presso la sede AIAP a Milano. La data programmata inizialmente è stata rinviata per motivi legati all’emergenza sanitaria in corso. Al più presto verrà definito un nuovo calendario concordato con l’Associazione Italiana Design della Comunicazione Visiva (AIAP), e il suo Presidente Marco Tortoioli Ricci. Presumibilmente la data verrà fissata nell’Aprile 2021.

La mostra viene presentata a Napoli il 29 novembre 2019, alle ore 11,00, presso l’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti, con la tavola rotonda che vede la partecipazione di Giuseppe Gaeta, Direttore dell’Accademia di Belle Arti, Enrica D’Aguanno, Coordinatore del Corso di design della Comunicazione ABANA, Pino Grimaldi, Docente di metodologia del design ABANA, Maria Rosaria Greco, curatrice della rassegna Femminile palestinese e Marco Tortoioli Ricci, Presidente AIAP, l’Associazione Italiana Design della Comunicazione Visiva che da il patrocinio al progetto.

Dopo l’opening in Accademia di Belle Arti a Napoli (29/11 – 10/01 scorso) la mostra arriva a Salerno al Teatro Ghirelli dove viene presentata il 31 gennaio 2020, alle ore 17,30, con la tavola rotonda a cui sono presenti Giovanni Petrone, Presidente di Casa del Contemporaneo, Pino Grimaldi, curatore della mostra e docente dell’Accademia di Belle Arti di Napoli. Porta i saluti istituzionali, Antonia Willburger, Assessore alla Cultura del Comune di Salerno. Modera gli interventi Maria Rosaria Greco, curatrice della rassegna Femminile palestinese

Femminile palestinese racconta la Palestina, attraverso la sua cultura e la voce delle sue donne, dando spazio a linguaggi artistici e culturali diversi. Negli anni la rassegna ha consolidato preziosi partenariati come in questo caso la collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Napoli, con la quale nasce il progetto “Comunicare la Palestina, una narrazione diversa”.

19 designer della comunicazione, docenti in università e accademie italiane, sono stati chiamati a una campagna di sensibilizzazione sulla questione palestinese, irrisolta dal 1948. Al di là della narrazione dominante che vede i palestinesi come terroristi e gli israeliani come vittime, non è mai stato presentato un progetto di comunicazione che faccia riflettere l’opinione pubblica, che possa contribuire a superare le ipocrisie della retorica della pace, mettendo a nudo una questione che è, tuttavia, piuttosto semplice. Gli israeliani hanno occupato la Palestina, cacciando i palestinesi e costringendoli a vivere in condizioni di subalternità sociale, morale, culturale, economica. I palestinesi sono prigionieri in casa propria.

I progetti dei 19 designer sono quindi oggetto di questa mostra e del relativo catalogo. L’apertura della mostra diventa spunto di riflessione per il convegno che affronta il tema della comunicazione sociale, della utilità ed efficacia del design per trasferire idee politiche, consapevolezza e impegno sociale.

Alla base dell’iniziativa ci sono alcune domande: un buon progetto di comunicazione, come una serie di poster d’autore, su un tema sociale e politico, può contribuire a cambiare un punto di vista? O almeno a indurre una riflessione su un tema così delicato e dimenticato come la questione palestinese?

La mostra infatti non ha lo scopo semplicemente di esporre una serie di esercizi di stile di alcuni noti designer italiani, quanto quello di sollecitare un pensiero teorico sul rapporto fra design della comunicazione e impegno politico, in particolare sull’efficacia della comunicazione. In altri termini, la comunicazione di utilità sociale può essere anche azione politica, con qualche effetto concreto, come indurre le persone a pensare?

L’obiettivo, come tutti gli appuntamenti della rassegna Femminile palestinese, è quello di accendere i riflettori su un tema dimenticato, di togliere la Palestina dall’isolamento, innanzitutto culturale, in cui è stata sapientemente collocata e di contrastare la sistematica azione che lo storico israeliano Ilan Pappe definisce di “memoricidio nei confronti del popolo palestinese.

Un particolare ringraziamento va agli autori che hanno aderito con i propri progetti: Paolo Altieri, Enrica D’Aguanno, Geppy De Liso, Paolo De Robertis, Francesco Dondina, François Fabrizi, Cinzia Ferrara, Marialuisa Firpo, Pino Grimaldi, Gabriella Grizzuti, Gianni Latino, Roberta Manzotti, Armando Milani, Mario Piazza, Daniela Piscitelli, Andrea Rauch, Gianni Sinni, Leonardo Sonnoli, Marco Tortoioli Ricci.

 

 

Avevamo un concerto in programma per mercoledì 11 marzo, ore 20,30 al Teatro Ghirelli di Salerno con gli Hartmann, che presentavano il loro debut album “Trotula”. L’appuntamento faceva parte della settima edizione della rassegna Femminile palestinese, curata da Maria Rosaria Greco e promossa dal Centro di produzione teatrale Casa del Contemporaneo.

Per motivi legati all’emergenza sanitaria in corso il concerto viene rinviato e verrà riproposto al più presto.

Il titolo dell’album è ispirato a Trotula De’ Ruggiero, famosa donna medico della Scuola Medica Salernitana, che fu esempio straordinario di confronto culturale. Racchiudeva in se le conoscenze mediche del mondo arabo, ebraico, latino e greco, e, inoltre, già nel Medioevo, aveva donne che studiavano e insegnavano medicina, le “mulieres salernitanae” di cui Trotula era la più conosciuta. Di lei parla M° Antonio Petti nel testo che gli Hartmann usano come riferimento per il loro album.

Hartmann:
Daniele Apicella: percussioni, voce
Renata Frana: dilruba, disegno
Orsola Leone: voce
Gabriele Pagliano: contrabbasso, viola da gamba
Carlo Roselli: oud, robab, citola, voce, narrazione

Serena Bergamasco: disegno luci
Gabriele Loria: producer, live sound engineer

HARTMANN E ALBUM TROTULA
In concerto, musica, poesia e narrazione si intrecciano continuamente dando vita ad un universo sonoro immaginifico e seducente, amplificato dall’uso di strumenti provenienti anche dal mondo arabo e indiano. La musica degli Hartmann ha creato grande suggestione con il commento musicale eseguito durante l’incontro con la poetessa palestinese Jumana Mustafa, ospite della rassegna Femminile Palestinese lo scorso ottobre, che ha letto le sue poesie in arabo dalla raccolta “Inciampo non appena cammino lentamente”.

L’album Trotula, stampato in vinile e in formato digitale, contiene brani con testi originali dedicati al mar Mediterraneo, luogo di speranza e viaggi rocamboleschi, intessuto dalle rotte di viaggiatori e migranti di ogni epoca, approdo mitico e concreto, ma anche pozzanghera nella quale l’Africa annega portando drammaticamente ognuno di noi a ripensare il significato di Civiltà.

Coprodotto con la Label Rupa Rupa records, “Trotula” è finanziato in crowfunding, con contributi provenienti da tutta Italia e da diversi paesi europei. In occasione del concerto è stato prodotto un CD a tiratura limitata (100 copie numerate), una collaborazione tra Rupa Rupa Records, Femminile Palestinese e teatrisospesi con brani dell’album e alcuni inediti

Info 3499438958
teatroghirelli@casadelcontemporaneo.it

FEMMINILE PALESTINESE – VII EDIZIONE
Il concerto degli Hartmann doveva chiudere la mostra “Comunicare la Palestina, una narrazione diversa” curata da Pino Grimaldi e Enrica D’Aguanno, alla quale hanno aderito 19 designer della comunicazione (Teatro Ghirelli, 31/01 – 11/03). La mostra precedentemente è stata esposta a Napoli in Accademia di Belle Arti (29/11 – 10/01) con la quale nasce questo progetto di comunicazione sociale. Dopo Salerno la mostra sarà esposta a Milano, nella sede AIAP, l’Associazione Italiana Design della Comunicazione Visiva che ha dato il patrocinio all’iniziativa. Le date sono da definirsi vista l’incertezza attuale di programmare un calendario.

Mercoledì 4 marzo, alle ore 19,00, presso il teatro Ghirelli di Salerno continua la settima edizione della rassegna Femminile palestinese, con la proiezione di “A Gaza le donne” di Maria Rosaria Greco, il docufilm che racconta la storia di Madleen, Amena, Mashael, Taghreed, Shadia e Miriam, narrata dalle stesse protagoniste in un reportage su Gaza.

Sei donne, ognuna con un proprio percorso, ma tutte costrette, nella quotidiana oppressione dell’assedio israeliano, a vivere senza futuro, senza diritti, senza dignità e libertà di movimento, prigioniere nella propria terra e continuamente monitorate da droni in grado di uccidere in ogni istante figli, mariti, fratelli. La società tradizionalmente patriarcale non aiuta. Eppure sono donne forti, che sanno sorridere e ti accolgono come ospite prezioso. E tutte ti chiedono di raccontare al mondo, di togliere Gaza dall’isolamento in cui è stata abbandonata.

 

 

Il racconto di “A Gaza le donne” incomincia da qui, da questa vita che continua a pulsare nelle vene, a sgorgare nelle pieghe di un sorriso, e a resistere con forza nonostante le condizioni disumane. È la vita di donne, di persone semplici che vivono giorno dopo giorno a Gaza fra mille difficoltà, che continuano a tenere la testa alta, a difendere la propria famiglia, a difendere i propri diritti, consapevoli della feroce oppressione israeliana, ma determinate a non arrendersi.

Il documentario, prodotto da Casa del Contemporaneo, ci accompagna in un approfondimento sulla situazione di Gaza, che secondo un rapporto Onu del 2012 sarebbe diventata invivibile nel 2020. Ne parliamo con:
– Maria Rosaria Greco, autrice di “A Gaza le donne” e curatrice della rassegna
– Pino Grimaldi, consulente di “A Gaza le donne” e docente ABANA
– Angelo Stefanini, medico attualmente impegnato con il PCRF (Palestinian Children’s Relief Fund), già docente dell’Università di Bologna dove fonda il Centro Studi e Ricerche in Salute Internazionale e Interculturale (CSI), già responsabile dell’ufficio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per i Territori Palestinesi Occupati, dove ha anche lavorato nella Cooperazione italiana come responsabile del programma sanitario italiano.
(per motivi legati all’emergenza sanitaria in corso Angelo Stefanini è in collegamento Skype)

Cosa significa che Gaza oggi è invivibile? Parliamo di condizioni essenziali di vita, legate alla potabilità dell’acqua, all’accesso alla corrente elettrica, alla possibilità di curarsi, di studiare, di lavorare, al livello di inquinamento da metalli pesanti dovuto ai bombardamenti, alla incredibile densità abitativa e al tasso elevatissimo e crescente di povertà.

 

 

Un particolare ringraziamento a Meri Calvelli e all’Ong italiana ACS – Associazione di Cooperazione e Solidarietà e Centro Italiano Di Scambio Culturale-VIK che ha permesso l’ingresso a Gaza, consentendo quindi le riprese e le interviste. Grazie ai preziosi accompagnatori che hanno tradotto le interviste: Said Almajdalawi, Muhammed Almajdalawi, Mohammed Malakhaofi. E grazie a tutti gli amici incontrati a Gaza.

Ma soprattutto grazie a loro: Madleen Kulab, Amena El Majdalawi, Mashael Al Najjar, Taghreed Jomaa, Shadia Nashwan, Miriam Abu Daqqa

Titolo “A Gaza le donne”
di Maria Rosaria Greco
Soggetto, Maria Rosaria Greco
Montaggio, Carlo Pecoraro
Consulenza, Pino Grimaldi
Produzione, Casa del Contemporaneo

Ingresso libero – info 3499438958
teatroghirelli@casadelcontemporaneo.it

GAZA:
A Gaza vivono reclusi circa due milioni di abitanti in una striscia di terra di oltre 365 km quadrati. Il 56 % sono bambini, l’80% delle famiglie “vive” sotto la soglia di povertà, il 74% sono rifugiati, che vivono cioè con gli aiuti dell’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi, che l’Amministrazione Trump vuole cancellare. Dall’inizio dell’assedio israeliano, cioè dal 2007, c’è stato un crollo totale dell’economia, con un tasso di disoccupazione superiore al 54%. La densità di popolazione è fra le più alte della terra, 5479 persone/km2, e la corrente elettrica viene fornita a intervalli di 8 ore, cioè 8 si e le altre no. L’acqua che esce dai rubinetti non si può bere, per avere acqua potabile bisogna comprarla, ma non tutti hanno i soldi per farlo, visto il livello impressionante di povertà. Usare acqua non pura comporta l’aumento esponenziale di tassi di insufficienza renale. Gli ospedali, che non possono ricevere adeguate attrezzature e farmaci di prima necessità perché considerati pericolosi da Israele, non riescono a fornire le cure essenziali. A questo si aggiunge che non esiste una struttura sanitaria specializzata in oncologia e ogni mese ci sono circa 120/160 nuovi casi di tumore.

Femminile palestinese, la rassegna curata da Maria Rosaria Greco con il sostegno del Centro di produzione teatrale Casa del Contemporaneo, continua con il secondo appuntamento del 2020.

“Cinema, hummus e falafel” è la due giorni dedicata al cibo e al cinema palestinese che si tiene il 12 e 13 febbraio, alle ore 19,00 al teatro Ghirelli di Salerno.
Saranno proiettati i seguenti cortometraggi:
12 febbraio:
“Mate Superb” di Hamdi Al Hroub (2013) Palestina – 12’58”
“Omar” di Luca Taiuti e Marco Mario De Notaris (2019) Italia – 24′
13 febbraio:
12 e 13 febbraio, alle ore 19,00 al teatro Ghirelli di Salerno.

“The fading valley” di Irit Gal (2013) Palestina/Israele – 54′

Saranno con noi:
Hamdi Al Hroub, regista palestinese
Marco Mario De Notaris, regista
Luisa Morgantini, presidente di Assopace Palestina
Omar Suleiman, attore palestinese
Luca Taiani, regista
Condurrà:
Maria Rosaria Greco, curatrice di Femminile palestinese

“Mate Superb” del giovane regista palestinese Hamdi Al Hroub, presente con noi alla proiezione, è ambientato a Gerusalemme dove è proibito fare parkour. Parla di un gruppo di amici palestinesi che non vuole rinunciare a correre e saltare sopra i tetti della città, riappropriandosi di un territorio occupato e negato, superando ostacoli e barriere urbane. Il parkour, con l’energia del corpo in movimento, diventa simbolo e desiderio di libertà e i ragazzi si esibiscono alla Porta di Damasco, l’emblema della cultura e identità palestinese.

“Omar” di Luca Taiuti e Marco Mario De Notaris, racconta la vita di Omar Suleiman, esule palestinese che da oltre 25 anni ha costruito a Napoli un movimento sociale e culturale attorno alle sue due attività, un caffè e un ristorante arabo. Ha fatto delle sue radici e delle sue idee di integrazione il simbolo di saggezza, di accoglienza, regalandoci le emozioni, i sapori, i profumi della sua terra. Sono presenti alla proiezione non solo i registi, ma lo stesso Omar che a fine serata ci farà gustare i suoi hummus e falafel.

“The fading valley” della regista israeliana Irit Gal, invece è un documentario che racconta il furto di acqua e di terra nella Valle del Giordano. Descrive la difficile vita dei villaggi beduini in estinzione e la loro sete di acqua, costretti a comprarla da Israele che ha dirottato tutte le fonti idriche alle proprie colonie, desertificando l’area intorno. Coniuga lo splendido paesaggio della Valle del Giordano alla tragedia umana dei suoi abitanti senza diritti. Ne parleremo in particolare con Luisa Morgantini da sempre molto attiva per la tutela di questa area.

A conclusione, in entrambe le serate, hummus e falafel per tutti, a cura del ristorante arabo Amir di Napoli. Ingresso 5 euro

 

 

“Femminile palestinese” quest’anno è alla settima edizione, il programma 2020 è iniziato lo scorso 31 gennaio con l’apertura della mostra “Comunicare la Palestina, una narrazione diversa” a cura di Pino Grimaldi e Enrica D’Aguanno, alla quale hanno aderito 19 designer della comunicazione, e che rimarrà al Ghirelli fino all’11 marzo, con gli orari: 10,00-13,00 e 16,00-20,00 dal martedì al sabato. La mostra è stata esposta a Napoli in Accademia di Belle Arti (29/11 – 10/01) con la quale nasce questo progetto di comunicazione sociale. Subito dopo Salerno la mostra sarà esposta a Milano, nella sede AIAP, l’Associazione Italiana Design della Comunicazione Visiva che ha dato il patrocinio all’iniziativa.

Entro l’11 marzo, durante la mostra, sono previsti gli altri appuntamenti della rassegna: quindi dopo “Cinema, hummus e falafel” in programma il 12 e 13 febbraio, il 4 marzo (ore 19,00) ci sarà il videoreportage “Donne di Gaza” sulle condizioni femminili di vita nella striscia. E infine l’11 marzo (ore 20,00) si terrà il concerto con gli Hartmann che presentano il loro album “Trotula” che parla di Mediterraneo, donne e migrazione.

info 3499438958
teatroghirelli@casadelcontemporaneo.it

Tutte le immagini di food utilizzate per questo evento sono della fotografa Alessandra Cinquemani, che ringraziamo per la concessione

La rassegna “Femminile palestinese” quest’anno alla sesta edizione, curata da Maria Rosaria Greco e promossa dal Centro di produzione teatrale Casa del Contemporaneo, torna all’Accademia di Belle Arti di Napoli con la Mostra “Comunicare la Palestina, una narrazione diversa” a cura dei docenti Pino Grimaldi e Enrica D’Aguanno.

La mostra viene presentata il 29 novembre 2019, alle ore 11,00, presso l’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti di Napoli con la tavola rotonda che vede la partecipazione di Giuseppe Gaeta, Direttore dell’Accademia di Belle Arti, Enrica D’Aguanno, Coordinatore del Corso di design della Comunicazione ABANA, Pino Grimaldi, Docente di metodologia del design ABANA, Maria Rosaria Greco, curatrice della rassegna Femminile palestinese e Marco Tortoioli Ricci, Presidente AIAP, l’Associazione Italiana Design della Comunicazione Visiva che da il patrocinio al progetto.

Femminile palestinese racconta la Palestina, attraverso la sua cultura e la voce delle sue donne, dando spazio a linguaggi artistici e culturali diversi. Negli anni la rassegna ha consolidato preziosi partenariati come in questo caso la collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Napoli, con la quale nasce il progetto “Comunicare la Palestina, una narrazione diversa”.

18 designer della comunicazione, docenti in università e accademie italiane, sono stati chiamati a una campagna di sensibilizzazione sulla questione palestinese, irrisolta dal 1948. Al di là della narrazione dominante che vede i palestinesi come terroristi e gli israeliani come vittime, non è mai stato presentato un progetto di comunicazione che faccia riflettere l’opinione pubblica, che possa contribuire a superare le ipocrisie della retorica della pace, mettendo a nudo una questione che è, tuttavia, piuttosto semplice. Gli israeliani hanno occupato la Palestina, cacciando i palestinesi e costringendoli a vivere in condizioni di subalternità sociale, morale, culturale, economica. I palestinesi sono prigionieri in casa propria.

I progetti dei 18 designer sono oggetto di una mostra e di un catalogo, insieme ad un convegno che affronta il tema della comunicazione sociale, della utilità ed efficacia del design per trasferire idee politiche, consapevolezza e impegno sociale.

Alla base dell’iniziativa ci sono alcune domande: un buon progetto di comunicazione, come una serie di poster d’autore, su un tema sociale e politico, può contribuire a cambiare un punto di vista? O almeno a indurre una riflessione su un tema così delicato e dimenticato come la questione palestinese?

La mostra infatti non ha lo scopo semplicemente di esporre una serie di esercizi di stile di alcuni noti designer italiani, quanto quello di sollecitare un pensiero teorico sul rapporto fra design della comunicazione e impegno politico, in particolare sull’efficacia della comunicazione. In altri termini, la comunicazione di utilità sociale può essere anche azione politica, con qualche effetto concreto, come indurre le persone a pensare?

L’obiettivo, come tutti gli appuntamenti della rassegna Femminile palestinese, è quello di accendere i riflettori su un tema dimenticato, di togliere la Palestina dall’isolamento, innanzitutto culturale, in cui è stata sapientemente collocata e di contrastare la sistematica azione che lo storico israeliano Ilan Pappe definisce di “memoricidio nei confronti del popolo palestinese.

La mostra Comunicare la Palestina, una narrazione diversa rimane aperta dal 29 novembre 2019 fino al 10 gennaio 2020, dal lunedì al venerdì, dalle 9.00 alle 18.00, al 1 ° piano dell’Accademia di Belle Arti di Napoli (Via Bellini 36 – via Costantinopoli 107 – www.abana.it)

Un particolare ringraziamento va agli autori che hanno aderito con i propri progetti: Enrica D’Aguanno, Geppy De Liso, Paolo De Robertis, Francesco Dondina, François Fabrizi, Cinzia Ferrara, Marialuisa Firpo, Pino Grimaldi, Gabriella Grizzuti, Gianni Latino, Roberta Manzotti, Armando Milani, Mario Piazza, Daniela Piscitelli, Andrea Rauch, Gianni Sinni, Leonardo Sonnoli, Marco Tortoioli Ricci.

INGRESSO LIBERO
DAL 29 NOVEMBRE AL 10 GENNAIO 2020

Prosegue la sesta edizione della rassegna Femminile palestinese, curata da Maria Rosaria Greco e promossa dal Centro di produzione teatrale Casa del Contemporaneo.

Giovedì 24 ottobre, alle ore 18,00, presso il Teatro Ghirelli di Salerno si tiene l’incontro con la poetessa palestinese Jumana Mustafa, autrice del libro “Inciampo non appena cammino lentamente” (Napoli 2011), che riunisce trentacinque poesie scelte dalle sue raccolte e riviste dalla stessa autrice per l’edizione italiana. Traduzione di Bianca Carlino.

Con l’autrice, Jumana Mustafa, sono presenti:
Omar Suleiman, Comunità palestinese Campania
Maria Rosaria Greco, curatrice

Commento musicale di Hartmann Quartett:
Daniele Apicella – tamburi a cornice e percussioni
Renata Frana- dilruba
Gabriele Pagliano – contrabbasso, viella
Carlo Roselli – citola, oud, robab, voce

 

Jumana Mustafa, nasce nel Kuwait nel 1977 da una famiglia palestinese, vive in Giordania dove ottiene la cittadinanza nel 2004. Lavora come corrispondente per diversi quotidiani, tra i quali il giordano Al Ghad nella sezione culturale.
Nel 2008 entra nella compagnia teatrale Al Fauanees con cui istituisce il Festival Poesia in teatro, che si svolge annualmente.
Si dedica alla poesia sin dall’infanzia e pubblica tre raccolte “Estasi Selvaggia” Dar al-Farabi, 2007, “Dieci donne”, Arab Institute for Research and Publiscing, 2009, “Una bellezza defunta vincerà la scommessa” Dar al-Farabi, 2011.
Partecipa a diversi festival internazionali di poesia e teatro in Italia, Siria, Tunisia, Algeria oltre che a numerose serate poetiche a Damasco, Amman e Beirut.
Attualmente lavora presso la UNDIP di Amman come responsabile del settore comunicazione e informazione .

La traduttrice Bianca Carlino (Palermo 1984) ha studiato la lingua araba nelle università di Tunisi, Palermo e Napoli . Ha tradotto in italiano alcune opere di Maram al-Masri

Ingresso gratuito

Roma, 22 ottobre 2019, Nena News – “Inciampo, non appena cammino lentamente” è l’unica raccolta di poesie di Jumana Mustafa, tradotta in italiano fino ad oggi. Poetessa e giornalista, nata nel Kuwait da una famiglia palestinese nel 1977, oggi vive in Giordania.

I suoi versi mi hanno condotto delicatamente, dondolandomi, in un viaggio lieve diretto verso il profondo, in un percorso fatto di immagini surreali eppure così radicato nel vissuto quotidiano. Mi hanno attratto le assonanze delle sue parole che rimangono sempre leggere, in alcuni momenti ironiche, in altri pungenti, in altri ancora meravigliosamente irriverenti.

Come scrive Aldo Nicosia nella prefazione del libro, “l’autrice è stregata dalla magia delle assonanze e degli accostamenti inconsueti delle parole che creano immagini intense e dense. Così dense da poter esser scolpite. La sua penna a volte si trasforma in scalpello che estrae, dalla materia informe dell’immenso dizionario arabo classico…”

Inciampo / non appena cammino lentamente / proprio come accade a tutte quelle donne / ritrovate / nei giacigli della delusione / i capelli rasati / le vene recise /

Non fermarti presso chi rassomiglia al tuo sogno / non seguire le frecce che conducono alla verità / la verità si trova dall’altra parte…

Perché. Sono prorompenti i perché che le parole dell’autrice fanno emergere. Cosa genera più dolore per Jumana, inciampare? O camminare lentamente? In che modo la poesia interviene in questi giacigli della delusione in cui si “ritrovano” donne dai capelli rasati e le vene recise? È dunque la velocità una salvezza? O forse un inganno? E da cosa ci salverebbe, dal non inciampare? O forse da noi stesse, dalle nostre paure, dai nostri pensieri più intimi?

Oppure ancora la velocità ci salverebbe omologandoci ai ritmi frenetici di un sistema nel quale annientarci, ci salverebbe da un mondo esterno che ci chiede di annullare il nostro diritto alla lentezza, il nostro diritto di camminare in un percorso intimamente nostro?

Eppure è fondamentale il diritto di tutte noi di “inciampare” e di “camminare lentamente”. Ogni donna dovrebbe muoversi secondo ritmi propri, ritmi femminili più dilatati, dettati per esempio dai tempi della riproduzione e non secondo frenetici ritmi maschili dettati dai tempi della produzione. La giornalista Anna Del Bo Boffino negli anni ’80 spiegava che i ritmi della riproduzione, propri della sfera femminile, hanno dovuto adeguarsi e rimanere costretti dentro ai ritmi della produzione, propri della sfera maschile.

Ovviamente non può esserci alcuna produzione senza riproduzione, ma questo è un altro discorso. Oggi i versi di Jumana mi hanno riportato al diritto di “camminare lentamente” anche se ci fa inciampare in noi stesse e nelle nostre paure.

È una poesia profondamente libera quella di Jumana Mustafa. Anche nella forma. Nessun titolo per le sue qasida, nessun ordine precostituito è autorizzato a imprigionare i suoi versi che spaziano liberi, liberi dall’essere vincolati ad un unico significato, liberi di immergersi nel più profondo dell’animo umano e soprattutto nell’immenso animo femminile, liberi di essere scanzonati e di sbeffeggiare con leggerezza il sistema partendo dal proprio intimo, liberi di infilarsi in linguaggi assolutamente indipendenti e diversi da quelli propri dell’ortodossia femminista o delle battaglie di autodeterminazione dei popoli arabi.

Di nuovo Aldo Nicosia, nella sua prefazione, ci ricorda che “Jumana definisce la sua poesia di un “coraggio tranquillo”, mai rumoroso, mai ribelle. I suoi versi vedono lontano, ma non hanno orecchie da prestare ai vacui gemiti del mondo”.

Come non rimanere incantate dalla poesia di Jumana Mustafa e dalla sonorità dei suoi versi in arabo? La incontriamo a Salerno il 24 ottobre, ospite della rassegna Femminile palestinese, che curo dal 2014 con la promozione del Centro di Produzione teatrale Casa del Contemporaneo. Insieme a lei Omar Suleiman che ha curato la pubblicazione della sua raccolta a Napoli nel 2011 (libreria Dante Descartes), con la traduzione di Bianca Carlino.

Come nella tradizione di Jumana Mustafa, che ama coniugare il teatro alla poesia, ho voluto organizzare l’incontro presso il teatro Ghirelli di Salerno con una presenza musicale. Con noi infatti il gruppo Hartmann Quartett: Daniele Apicella – tamburi a cornice e percussioni. Renata Frana- dilruba. Gabriele Pagliano – contrabbasso, viella. Carlo Roselli – citola, oud, robab, voce.

Nessun confine, quindi, fra le varie discipline artistiche che si fondono in un unico e denso incontro con Jumana Mustafa. Vi aspetto e vi saluto con i suoi versi:

Cadere una sola volta / basta per rendere zoppa la vita /

Avere un solo cuore / basta per amarti, vita zoppa.

* curatrice della rassegna Femminile palestinese

***

BIOGRAFIA

Jumana Mustafa, nasce nel Kuwait nel 1977 da una famiglia palestinese, vive in Giordania dove ottiene la cittadinanza nel 2004. Lavora come corrispondente per diversi quotidiani, tra i quali il giordano Al Ghad nella sezione culturale.

Nel 2008 entra nella compagnia teatrale Al Fauanees con cui istituisce il Festival Poesia in teatro, che si svolge annualmente. Si dedica alla poesia sin dall’infanzia e pubblica tre raccolte “Estasi Selvaggia” Dar al-Farabi, 2007, “Dieci donne”, Arab Institute for Research and Publiscing, 2009, “Una bellezza defunta vincerà la scommessa” Dar al-Farabi, 2011.

Partecipa a diversi festival internazionali di poesia e teatro in Italia, Siria, Tunisia, Algeria oltre che a numerose serate poetiche a Damasco, Amman e Beirut. Attualmente lavora presso la UNDIP di Amman come responsabile del settore comunicazione e informazione.

La traduttrice Bianca Carlino (Palermo 1984) ha studiato la lingua araba nelle università di Tunisi, Palermo e Napoli . Ha tradotto in italiano alcune opere di Maram al-Masri.

 

 

 

 

 

Unica donna di Gaza a svolgere questo lavoro, Madleen pesca da quando era una ragazzina. Il fratello Kayed fu ucciso l’anno scorso dai soldati israeliani mentre manifestava alla “Grande Marcia del ritorno”

Madleen Kulab, foto di Maria Rosaria Greco

 

di Maria Rosaria Greco*

Gaza, 12 settembre 2019, Nena News – “Mi chiamo Madlleen Kulab, ho 25 anni, sono sposata da un anno e tre mesi, faccio la pescatrice, ma per il momento sono ferma perché sono incinta.” Inizia così la mia intervista a Madleen, la donna pescatrice di Gaza che mi racconta la sua storia, mentre mi guarda con lo sguardo fermo e tenace, occhi neri, risposte secche senza incertezze. Sono a casa sua, fra mura di colore rosa dall’intonaco scrostrato, una casa poverissima dove però l’accoglienza è sacra, come in tutte le case palestinesi.

“Avevo 13 anni quando ho incominciato questo lavoro, il mare da sempre fa parte della mia vita. Mio padre mi portava con lui a pescare fin da piccola, mi piaceva e poi ho iniziato ad aiutarlo, fino al momento in cui lui si è ammalato. Così ho preso il suo posto sul peschereccio, io ero la più grande dei miei fratelli, potevo farlo solo io.” Di lei hanno parlato in molti, per l’audacia di una scelta difficile. Scriveva di lei nel 2010 Vittorio Arrigoni, quando Madleen aveva 16 anni. “Ogni mattina verso le 6, un’ora prima di recarsi a scuola, spinge a remi di poco al largo la sua minuscola imbarcazione e lancia le reti. Un rituale che si ripete quotidianamente anche al pomeriggio, poco dopo la fine delle lezioni.”

Ispirato alla storia di Madleen, nel 2013, esce il libro per ragazzi della scrittrice giordana Taghreed al Najjar “Sitt al-Koll”, pubblicato dalla casa editrice Salwa e illustrato dalla disegnatrice siriana Gulnar Hajo. Il racconto della giovane protagonista Yousra, che diventa la prima donna pescatrice di Gaza sfidando ogni convenzione, viene tradotto in italiano da Leila Mattar e nel 2018 l’editore Giunti pubblica Contro corrente. Storia di una ragazza “che vale 100 figli maschi”.

Nel 2017 invece esce il video prodotto da Al Jazeera: “Fish out of water: Gaza’s first fisherwoman l Al Jazeera World” in cui Madleen racconta la sua storia. Insieme a lei vengono intervistati il padre, la madre e gli amici pescatori.

Oggi il suo nome è conosciuto anche fuori dalla striscia di Gaza, ma, soprattutto all’inizio, non è stato facile per lei. “Ovviamente la mia è stata una scelta difficile, questo lavoro è difficile, e anche molto pericoloso. All’inizio ho dovuto dimostrare di essere all’altezza per guadagnarmi il rispetto degli altri, soprattutto di chi non mi conosceva fin da piccola. Parlo dei pescatori più giovani e della polizia che non accettavano che una donna potesse fare questo lavoro.”

La comunità dei pescatori a Gaza è tradizionalmente maschile e qui sfidare alcune convenzioni culturali non è facile, a partire dall’abbigliamento che le donne devono indossare. Madleen, durante la pesca porta sempre il velo e i vestiti ingombranti che vanno tenuti anche per nuotare, quando si immerge nell’acqua, per esempio, per controllare le reti e l’eventuale pescato. “Nonostante la scomodità dei vestiti, l’acqua è il mio elemento naturale, quando sono nel mare riesco a sentirmi completamente libera. Ma è anche il momento in cui ho paura. I pescatori fanno un lavoro molto duro e pericoloso, non solo per i ritmi faticosi scanditi dal mare. Quello di cui ho paura, e che incombe su tutti i pescatori di Gaza, è la violenta e sistematica oppressione israeliana, che impone l’assedio sulle nostre vite e sul nostro mare.”

I pescatori possono gettare le reti solo in un’area compresa tra le 3 e le 6 miglia nautiche quando l’area di pesca stabilita dagli accordi di Oslo era stata fissata a 20 miglia. Prima dell’embargo, qui a Gaza, la pesca era una delle principali attività, ma nei lunghissimi anni di assedio proprio la comunità dei pescatori è diventata fra le più povere. I circa 4000 pescatori che oggi rimangono attivi per lo più vivono sotto la soglia della povertà.  I pesci migliori si trovano intorno alle 12 miglia, vicino alla costa si pesca poco, pochi chili e per lo più sardine, gamberetti, triglie e granchi. Tra l’altro viene anche negata a tutta la popolazione una importante fonte di alimenti.

“Appena un nostro peschereccio prova ad avvicinarsi alle 5 miglia marine le motovedette militari israeliane piombano e iniziano a sparare, sequestrano la barca e le reti. Oppure lanciano getti di acqua bollente che ustionano, o ancora lanciano getti di liquido dall’odore putrido che non ti lascia per giorni. Spesso arrivano e iniziano a girare vorticosamente intorno alle nostre barchette malandate, fino a farle affondare o a spezzarle. Le loro navi da guerra sono veloci ed enormi in confronto ai nostri pescherecci, a cui tra l’altro non possiamo fare manutenzione perché l’assedio israeliano non ci permette di importare le materie prime necessarie”

Secondo Madleen inoltre “Israele restringe ed estende la zona di pesca spesso come misura punitiva, una specie di guerra economica dichiarata alla striscia e in particolare ai pescatori, provocando un profondo senso di insicurezza. È una punizione collettiva illegale che nulla ha a che fare con la sicurezza. Infatti spesso le misure più restrittive vengono imposte nel periodo migliore di pesca.”

Tre anni fa anche la sua barca viene confiscata da Israele, con tutta l’attrezzatura, lasciando Madleen completamente disoccupata e senza alcuna fonte di sostentamento. “È stato terribile per me e la mia famiglia, ho sentito di perdere ogni speranza, ancora oggi non so se riuscirò mai a riavere la barca. Poi mi sono inventata una nuova idea imprenditoriale nel tentativo di ripartire. Con grandi sacrifici sono riuscita a ottenere un prestito dalla Bank of Palestine per comprare una barca da destinare a giri turistici per donne e famiglie. Speravo in questo progetto per avere una minima stabilità economica e all’inizio non andava male. Ora non so, ormai la gente è sempre più povera, costretta a vivere alla giornata. La povertà purtroppo qui a Gaza colpisce tutti ed è soffocante.”

Ma Madleen è incinta e non può permettersi di guardare al futuro senza speranza, soprattutto dopo aver vissuto un’altra sofferenza atroce per la perdita del fratello Kayed, un anno più piccolo di lei, ucciso dai cecchini dell’esercito israeliano mentre manifestava pacificamente alla “Marcia del ritorno”.

“Oggi aspetto una bambina e ho un sogno, vorrei potesse nascere in una terra libera, vorrei che non dovesse subire l’assedio illegale israeliano che ci toglie tutto, la vita, il lavoro, la dignità, il futuro e i sogni. Anni fa ero stata scelta per rappresentare la Palestina ai campionati di nuoto in Sud Africa. Mi è sempre piaciuto molto nuotare, ma il blocco di Gaza non mi ha permesso di uscire dalla striscia, di viaggiare e quindi di partecipare alla gara. I miei sogni sono stati calpestati come vengono quotidianamente calpestate le nostre vite qui, sotto l’occupazione israeliana. Israele non potrà continuare in eterno a violare i nostri diritti umani e civili e prima o poi verrà giudicato. Mi auguro che la Comunità internazionale intervenga al più presto.

 Io sono una pescatrice, chiedo solo di vivere a Gaza e di lavorare con dignità, di pescare nel nostro mare senza limiti, di vedere i nostri figli crescere sereni, senza il timore di essere bombardati, perché possano giocare, studiare, andare a scuola come tutti i bambini del mondo.” Nena News

*Curatrice della rassegna “Femminile palestinese”

Parte la sesta edizione della rassegna Femminile palestinese, curata da Maria Rosaria Greco e promossa dal Centro di produzione teatrale Casa del Contemporaneo.

Il primo appuntamento, prima del programma autunnale 2019, si tiene venerdì 24 maggio, alle ore 19,00 presso il Circolo Arci Marea di via Capobianco 1, Salerno: “Femminile palestinese incontra Michele Giorgio” per la presentazione del suo libro “Israele, mito e realtà, il movimento sionista e la Nakba palestinese settant’anni dopo” (Edizioni Alegre) scritto insieme a Chiara Cruciati.
Intervengono:
Michele Giorgio, giornalista de Il Manifesto
Giso Amendola, docente di Sociologia del diritto, Università degli studi di Salerno
Roberto Prinzi, giornalista di Nena News Agency

Il libro è uscito nel maggio 2018, a settant’anni da un evento che ha trasformato il Medio oriente e il mondo intero: la fondazione dello Stato di Israele e la Nakba, cioè la catastrofe del popolo palestinese, che noi preferiamo chiamare, con lo storico israeliano Ilan Pappe, la pulizia etnica della Palestina.

Questo libro ripercorre la storia e l’attualità dell’idea di Israele, ricostruendo la genesi del movimento sionista e le sue conseguenze sulla popolazione palestinese attraverso analisi, ricerche, utilizzando fonti israeliane, palestinesi e internazionali, e con il racconto diretto di studiosi, esperti, protagonisti.

 

Gli autori mettono a fuoco alcuni concetti ideologici fondanti lo Stato ebraico e le politiche concrete del progetto sionista che si sono susseguite in questi decenni, analizzando anche la dimensione planetaria, culturale e politica della questione israelo-palestinese che influenza non pochi governi e mobilita tante società civili.

In questi oltre settant’anni si è passati da un sionismo “socialista”, fondato sul mito della conquista della terra e del lavoro, a un nazionalismo religioso, con inevitabile spostamento a destra della società israeliana.

Oggi prevale la narrazione sionista della storia della Palestina, che rimuove costantemente un fatto centrale, cioè che nella terra promessa del racconto biblico, dove i sionisti intendevano fondare il proprio Stato, c’era un altro popolo, quello palestinese, che sentiva quella terra come propria per il semplice fatto che ci viveva da secoli e secoli. Ed è questa l’origine della contraddizione irrisolta tra il mito di un focolare ebraico dove far tornare un popolo a lungo perseguitato, e la realtà di un progetto coloniale di insediamento della Palestina che sostanzialmente prevede il controllo di più terra possibile con il minor numero di palestinesi dentro.

Palestina. Intervista allo storico israeliano Ilan Pappe, ospite della rassegna Femminile Palestinese: «L’accademia riproduce il discorso sionista»

Giovani palestinesi manifestano contro l’occupazione israeliana sul muro che corre nel villaggio di Bilin, in Cisgiordania © Ap

Chiara Cruciati
SALERNO

«Parlare di Palestina non è mero esercizio di libertà di espressione. È una forma di lotta per la liberazione del popolo palestinese dal colonialismo di insediamento israeliano. Se ne parli non solo in nome della libertà accademica, ma come dovere di fronte alla catastrofe di un popolo».

Lo storico israeliano Ilan Pappe, autore di fondamentali ricerche storiche sul progetto sionista e i suoi effetti sul popolo palestinese, ha di fronte una platea nutrita e particolare: gli studenti dell’Università di Salerno, richiamati da un evento importante. Insieme all’antropologa palestinese Ruba Salih e ai professori Gennaro Avallone e Giso Amendola, la rassegna «Femminile Palestinese» curata da Maria Rosaria Greco ha portato nel campus un tema centrale, decolonizzazione e libertà accademica, affrontato dagli ospiti in chiavi tra loro connesse, dalla privatizzazione dell’accademia al rapporto con lo spazio urbano fino ai legami di potere e visione neocoloniale tra atenei ed élite economiche neoliberiste.

«Il discorso sionista è fondato su basi fragili: la realtà non coincide con la narrazione – spiega Ilan Pappe – Per questo il mondo accademico israeliano si è mobilitato: si dovevano rafforzare quelle basi. Identificare i materiali con cui la narrazione sionista è stata costruita non è solo un esercizio intellettuale, perché quel discorso ha un impatto sulla vita di un popolo. Il primo materiale utilizzato è l’assorbimento della Palestina all’interno della storia dell’Europa. Dalla dichiarazione Balfour, passando per il piano di partizione dell’Onu del 1947 fino alla dichiarazione di Trump su Gerusalemme, l’Europa e l’Occidente percepiscono la Palestina come un affare interno. E questa falsa rappresentazione è stata traslata su Israele. In tale visione i palestinesi, in quanto arabi e musulmani, sono visti come migranti e non come nativi».

«Il secondo materiale è la natura del progetto coloniale sionista: un colonialismo di insediamento del tutto simile a quello perpetrato in Nord America, Australia e Sudafrica. La presenza di popoli indigeni che non corrispondevano alla popolazione desiderata dai coloni europei si è tradotta in genocidio nei primi due casi, in apartheid in Sudafrica e in pulizia etnica in Palestina. L’idea che gli indigeni siano gli invasori sta alla base di questo tipo di colonialismo ed è riprodotta dall’accademia che narra la storia della Palestina in questi termini. E quella israeliana si spinge oltre quando discute di questione demografica, legittimando le politiche di riduzione del numero di palestinesi sul territorio. In atto c’è lo stesso processo di disumanizzazione che il neoliberismo applica ai lavoratori».

Dei legami tra Occidente e Israele abbiamo discusso con lo storico israeliano a margine dell’incontro di Salerno.

Il 6 dicembre il presidente Usa Trump ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele. Un atto meramente simbolico, che non modifica lo status della Città Santa, o un atto con effetti concreti?
Non è simbolismo. L’importanza di tale dichiarazione sta nel messaggio inviato alle Nazioni Unite e al mondo: il diritto internazionale, nel caso di Israele e Palestina, non conta più. Lo status di Gerusalemme è protetto dal diritto internazionale e per questo nemmeno gli Stati uniti avevano mai trasferito l’ambasciata a Gerusalemme. È vero che il diritto internazionale non è stato mai rispettato da Israele, ma la comunità internazionale ha sempre sperato che quella legge avesse un significato. La dichiarazione di Trump ha un effetto concreto: se il diritto internazionale non ha valore a Gerusalemme, allora non ha valore nemmeno nel resto della Palestina. Qui sta il cuore del riconoscimento: costringere a un cambio di marcia e di riferimenti politici e dire a chi ha sempre creduto nel diritto internazionale, nella soluzione a due Stati, nel processo di pace che tutti questi strumenti non saranno d’aiuto nella lotta contro il colonialismo di Israele. Si deve dunque pensare a un approccio diverso, simile a quello che venne adottato contro il Sudafrica dell’apartheid.

Israele è assunto come modello securitario, sia nel sistema di controllo che nella logica della separazione tra un «noi» e un «loro», che nella fortezza-Europa si traduce nella chiusura ai rifugiati.

La cosiddetta guerra al terrorismo ha aiutato moltissimo Israele. A Francia, Belgio, Stati uniti e così via, Israele ha dato consigli e sostegno sul modo di gestione della comunità musulmana e su come sovvertire o aggirare il sistema legale per affrontare la cosiddetta minaccia islamica. È diventato il guru globale della lotta al cosiddetto pericolo islamico. È scioccante perché la competenza israeliana deriva dalla lotta a un movimento di liberazione nazionale e non al terrorismo. Eppure questo ruolo è fondamentale per Israele perché crea l’equazione lotta di liberazione uguale terrorismo. È nostro compito smentire questa falsa equazione.

Da cosa deriva l’impunità di cui gode Israele per le violazioni contro il popolo palestinese? È l’effetto dell’auto-assoluzione del colonialismo europeo, che ha preso parte alla nascita di Israele, o il sionismo è ormai sfuggito al controllo occidentale?

In Europa l’impunità di Israele ha a che fare con l’Olocausto e con la questione ebraica che non è stata mai realmente affrontata. L’antisemitismo europeo non è mai stato sviscerato. Per cui per certe generazioni europee Israele è uscito dai radar, un capitolo nero da risolvere lasciandolo fare. A questo vanno aggiunti oggi l’islamofobia, l’eredità coloniale, il neoliberismo che ha un’alleanza strategica con Israele. Per gli Stati uniti è diverso: qui l’impunità è figlia del potere delle lobby ebraiche, cristiano-sioniste e ovviamente di quello dell’industria militare. Penso che l’eredità coloniale sia solo una delle cause di questa immunità. Quello che sarà interessante vedere è se le future generazioni occidentali si porteranno ancora dietro il senso di colpa europeo per l’Olocausto e se gestiranno la questione Israele allo stesso modo.

Quanto si è modificata nel tempo la società israeliana? Oggi siamo di fronte ad un popolo sempre più spostato a destra, come la leadership.

Era inevitabile che la società israeliana si spostasse a destra. La possibilità che un colonialismo di insediamento potesse essere anche democratico o socialista era nulla. Il vero Israele si sta mostrando oggi. È un inevitabile processo storico, sebbene Israele provi a giocare la carta della democrazia. Passerà del tempo prima che la società israeliana cambi o si trasformi. Anche se il primo ministro Netanyahu sarà cacciato a causa degli scandali corruzione che affronta oggi, la natura del regime non cambierà.