Intervista con la scrittrice palestinese Adania Shibli ospite a Napoli di «Femminile palestinese». Nata in un villaggio dell’alta Galilea, dell’autrice sono stati tradotti «Sensi» e «Pallidi segni di quiete». Vincitrice del premio della fondazione A. M. Qattan, la sua scrittura dialoga con una dura storia collettiva
di Roberto Prinzi
Raccontare il dolore, l’estraniamento, l’umiliazione quotidiana causate dall’occupazione israeliana della sua terra, la Palestina, soffermandosi su piccoli dettagli che, messi insieme, arrivano a indagare i sentimenti più nascosti dell’animo umano. È questa la cifra stilistica della scrittrice Adania Shibli, nata nel 1974 in un villaggio dell’alta Galilea e vincitrice tre volte del premio della fondazione A. M. Qattan.
Dell’autrice palestinese sono stati tradotti in italiano due libri: Sensi (nel 2007) e Pallidi segni di quiete (nel 2014) pubblicati entrambi da Argo. È stata ospite a Napoli ieri e l’altro ieri della quinta edizione della rassegna Femminile palestinese curata da Maria Rosaria Greco.
Lei scrive che i «palestinesi sono come dei detective alla ricerca della tracce di una vita scomparsa». Dove è il confine in Palestina tra visibile e invisibile?
Per me la questione è più chi decide i confini tra visibile e invisibile. Come primo passo del processo di oppressione, le autorità israeliane lavorano costantemente per cancellare la Palestina. Ciò avviene a molti livelli: dall’architettura dei paesaggi all’archeologia, dalla costruzione di strade per coloni alla distruzione e allo sradicamento di case e alberi. L’esistenza palestinese è poi spesso resa invisibile anche quando li si rende visibili soltanto in una situazione specifica: quando reagiscono alla violenza coloniale con mezzi violenti. E in questo anche i media ne sono responsabili.
Altro aspetto da sottolineare è la riduzione a silenzio delle voci palestinesi. Per le autorità israeliane la lingua araba è diventata uno strumento che identifica i palestinesi e, pertanto, va soppressa. La recente legge sulla nazionalità degrada l’arabo da lingua ufficiale a «lingua a status speciale» e ha come obiettivo quello di rendere il linguaggio invisibile. L’odio e la discriminazione verso i palestinesi inizia a un livello sonoro, non solo a quello visivo: ascoltarli, sentire la loro narrativa è insostenibile perché è una minaccia. Perciò la loro lingua (l’arabo) deve essere silenziata oltre che sabotata.
Nei suoi libri lei descrive il dolore, la solitudine, l’estraniamento causati dall’occupazione israeliana. Eppure, non c’è spazio per la resa e la disperazione perché si resiste cogliendo piccoli dettagli della vita: gli occhi verdi del vicino, il vento dei campi…
Non limiterei le cause del dolore, della solitudine e dell’estraniamento alla colonizzazione e occupazione israeliane perché queste sono caratteristiche umane. È vero che Israele riveste a riguardo un ruolo di primo piano, ma è più interessante osservare come gli esseri umani in generale coniugano questi sentimenti e si possano nascondere o scusare per quello che fanno grazie a loro. I dettagli di vita presenti nei miei testi possono essere sia di dolore che di solitudine, ma anche domini dove si può resistere. Se noti il vento nei campi perché sei solo, è pur vero che questa situazione ti rivela un aspetto della vita che è un momento fugace e prezioso che ti permette di resistere, di rimanere resiliente di fronte alla solitudine o al dolore.
Contro l’assurdità dell’occupazione, lei sembra suggerire – attraverso la sua scrittura – due forme di resistenza: la ricerca della bellezza e una sorta di autismo («tawwahud») emotivo. I fallimenti di decenni di lotta nazionale le hanno fatto perdere la fiducia nella storia collettiva?
L’occupazione non è affatto assurda: è pensata e misurata con modalità che causano ai palestinesi emozioni assurde e conflittuali, ponendoli ai margini della loro umanità. In una situazione simile, l’atto di scrivere può servire, ma non si materializza in una deliberata opposizione tra esperienze individuali e collettive. Scrivere, e probabilmente parlare e sentire, sono spesso i domini in cui un individuo crea una zona dove si protende verso gli altri abbandonando la propria individualità. La mia scrittura tenta probabilmente di contemplare lo spazio creato da queste esperienze singolari e cosa queste creano nella collettività. Non parlerei, tuttavia, di fallimenti politici palestinesi quando parliamo di storia collettiva. I palestinesi non possono essere colpevolizzati per i fallimenti a cui sono stati soggetti, ma sono responsabili quando cadono nelle trappole che Israele pone. I checkpoint, costruiti per insultarci, umiliarci e cancellarci come esseri umani, causano rabbia e vendetta, ma se si reagisce così, si adotta la posizione che l’occupazione israeliana ha concepito per noi. È qui il fallimento.
Nonostante la centralità della Palestina, lei ha detto che i suoi lavori sono «senza spazio e dislocati». Vuole rappresentare una condizione di sradicamento dell’umanità più generale?
In realtà non voglio rappresentare nulla perché farlo vuol dire assumere una posizione di potere. A me piace guardare, contemplare e riflettere. Se parte del mio lavoro è «senza spazio e dislocato», lo è puramente perché è il risultato di una contemplazione su come qualcuno possa esserlo.
La sua scrittura evoca costantemente immagini. Quanto la sua prosa, a tratti lirica, prende in prestito dalla grande tradizione poetica palestinese e dalle arti visive?
Forse la mia scrittura evoca immagini perché guardo e contemplo. La mia curiosità e i miei molteplici interessi formano il mio modo di scrivere. Non classifico però le influenze in base a categorie nazionalistiche. La lingua araba si materializza non solo per le cose che sono state scritte dai palestinesi, ma anche attraverso le traduzioni che sono state fatte in arabo. Tradurre in arabo ad esempio Wislawa Szymborska apre la mia lingua a nuove sensibilità e fa rientrare il suo lavoro nella grande tradizione poetica in arabo.
Contrariamente a quanto ha fatto lei, alcuni autori palestinesi d’Israele pubblicano anche (o solo) in ebraico. Come giudica la loro scelta?
La definizione «palestinesi d’Israele» è un’invenzione degli israeliani. Mi mette in una categoria che non ho scelto e in cui non consento di essere messa. Tutte queste divisioni [terminologiche] sono frutto della loro opera di colonizzazione. La scelta di scrivere in una lingua differente dall’arabo è una scelta personale: ognuno decide per sé. Io sono molto felice di essere nata di lingua araba. Che fortuna, in un mare di sfortuna. Nena News
Pubblicato su il manifesto in data 23 ottobre 2018